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Il più italiano dei grandi. Il più grande degli italiani | CulturaIdentità

Dante e il suo poema, affresco di Domenico di Michelino nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze (1465)

Solo gli incolti si possono scandalizzare delle parole del Ministro Sangiuliano su Dante figura di riferimento di una cultura politica di destra. Che poi gli incolti appartengano alla stessa schiera di quelli che pensano di essere i migliori e da settant’anni hanno preso in appalto la politica culturale italiana può stupire solo i disattenti. Ad ogni modo, il pensiero politico di Dante è evidente anche ai ciechi, basta leggersi o rileggersi il De Monarchia e il Convivio. Come aveva detto Marcello Veneziani sulle pagine di CulturaIdentità (Redazione)

Dante Alighieri è il punto di fusione tra identità e cultura. Tramite la cultura, che in Dante è culto e coltivazione, lingua, poesia e tradizione, si forma l’identità di una nazione, di un popolo, di una civiltà. Dante è nostro padre, ho scritto già nel titolo del mio libro da poco uscito, che oltre il mio saggio raccoglie le sue migliori pagine in prosa. Dante fondò l’Italia tramite la lingua, la visione geopolitica, l’eredità dell’impero romano e l’impronta della civiltà cristiana. L’Italia, dunque, non fu fondata da un condottiero o da una dinastia ma da un poeta. Dante generò l’Italia dal suo mito. Vagheggiava la monarchia universale ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nella Roma cattolica ma non clericale, dove l’Impero ha dignità pari a quella del Papato. Fu ancora Dante a dare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, collegandosi a Virgilio e alla fondazione di Roma. Dante generò quell’aspettativa d’Italia che altri scrittori poi coltivarono nei secoli.

Da dove nasce il ruolo postumo di Dante come profeta dell’Italia? Da una lunga tradizione culturale, che parte dalla “discoverta” di Giovan Battista Vico. E’ lui a ritenere Dante, sulla scia di Omero, lo scopritore del linguaggio poetico, capace di raccogliere in un solo “illustre volgare”, le sparse lingue della penisola, come Omero aveva fatto per i popoli della Grecia arcaica. Ma Dante, a differenza di Omero, non era una figura mitica, impersonale, una tradizione collettiva che si tramandava per via orale; era un poeta, con una sua spiccata personalità, sue opere e un suo ruolo nella storia del suo tempo. E si pose, secondo Vico, come artefice primo della lingua e dell’ethos della nuova Italia che si profilava faticosamente all’orizzonte e dolorosamente emergeva dalla barbarie ritornante. Fu Vico a cogliere il nesso tra lingua e nazionalità, ritenendo Dante il precursore dell’Italia. Il fondatore d’Italia nella prima rappresentazione eroica e mitologica è Enea, che lo stesso Dante richiama, attraverso Virgilio e l’Eneide. Il mito di fondazione nasce dal suo racconto epico. Da Virgilio a Dante, e da Dante a Petrarca e Boccaccio, dalla scuola poetica siciliana all’uso della lingua volgare: il cammino dell’identità italiana comincia poetando.

Vico stabilisce una sequenza rigorosa: dalla filosofia italica nasce la lingua latina e dalla lingua latina prende forma la nazione italica. La sapienza genera la lingua e la lingua genera la nazione. E’ il percorso di una nazione culturale.

La “scoperta” civile di Dante avviene solo tra la fine del diciottesimo secolo e il diciannovesimo, incrocia il romanticismo e culmina nell’idealismo risorgimentale. Il seicento fu un secolo senza Dante. Non dimentichiamo, del resto, che non solo il de Monarchia ma perfino la Divina Commedia era proibita nella Roma dei Papi fino al 1791. L’edizione che circolava in quegli anni, pubblicata nel 1728, recava la falsa dicitura di stampata a Napoli, mentre fu clandestinamente stampata a Roma con alcune parti censurate perché “disdicevoli”, diceva la prefazione, “a scrittore religioso”. Ciò rende l’idea di un clima sfavorevole alla riscoperta di Dante, se non in ambienti laici e ostili alla Chiesa, come la massoneria e la carboneria.
Leopardi ritenne Dante “per intenzione e per effetto” il fondatore della lingua italiana; anzi, Dante fu il solo – a suo dire – ad avere l’intenzione di applicare la lingua italiana alla letteratura, attraverso “il poema sacro” ma anche tramite “le materie più gravi della filosofia e della teologia”, inclusa l’opera “dottrinale e gravissima del Convivio”. Giudicando la sua “vicenda sfortunata”, Leopardi considerò Dante “uomo d’animo forte, bastante a reggere e sostenere la mala fortuna (…) Tanto più ammirabile ma tanto meno amabile e commiserabile” rispetto al suo prediletto Torquato Tasso.

Dante indicò un cammino iniziatico e spirituale che è universale; e un cammino civile e culturale che è italiano. Anche se, come notò Prezzolini, Dante fu anche il padre degli antitaliani per amor deluso di patria. Dante non cerca lettori ma affiliati; non vuole dilettare il lettore ma trasformarlo. Da qui la sua grandezza e la sua solitudine. Dante, il più italiano dei grandi, il più grande degli italiani.

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