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Primarie Pd, totem del partito che volevano aprire a un vero potere decisionale dal basso – Il Riformista

“Il Pd? È il partito delle primarie”, “le primarie sono l’identità del Pd”: non molto tempo fa era frequente sentire affermazioni del genere in bocca ad analisti e giornalisti ma soprattutto negli accampamenti del Pd. Non era un’esagerazione. Le primarie non sono state solo una via per indicare il candidato o il segretario di turno ma un vero elemento identitario, l’unico di cui il partito fondato da Veltroni nel 2008 sia riuscito dotarsi, la celebrazione collettiva del patto, vero o presunto, tra i vertici e gli elettori, il segno tangibile della discendenza di quel partito dall’esperienza dei padri fondatori ulivisti, dei Prodi e Parisi che le primarie se le inventarono nel primo decennio di questo secolo. Non che la funzione di propaganda sia mai stata secondaria: il rito è sempre stato anche questo. Ma non solo questo.

La partenza fu trionfale e sembrò aprire la strada a un vero potere decisionale dal basso. La coalizione che si preparava a sfidare la possente destra di Silvio Berlusconi nelle elezioni politiche del 2006 esordì con due elezioni regionali, in Calabria e in Puglia. In Calabria non c’erano problemi: Agazio Loiero, il candidato scelto dai partiti del centrosinistra, la futura Unione, vinse senza sforzo. La sorpresa arrivò invece in Puglia: Nichi Vendola, il candidato di Rifondazione comunista, prevalse a sorpresa sul nome indicato dal Pd e in particolare da Massimo D’Alema, che in Puglia aveva costruito la propria roccaforte, Francesco Boccia. Il 16 gennaio 2005, con 79.296 votanti, Vendola prevalse e poi, d’impeto strappò la Puglia alla destra che metteva in campo Raffaele Fitto.

Il vero debutto furono però le primarie di coalizione del 16 ottobre 2005 per la scelta del candidato alle prossime politiche: non c’era partita, la vittoria di Romano Prodi era certissima. Gli obiettivi del rituale erano altri: lanciare la campagna elettorale con una immensa prova di forza, cementare l’alleanza tra i leader dei partiti che aderivano all’Unione. Si candidarono tutti: Bertinotti, Mastella, Di Pietro e Pecoraro Scanio più l’outsider Ivan Scalfarotto. Accorsero ai gazebo oltre 4.300mila elettori. Prodi si assicurò il 74,17% dei consensi, Bertinotti, con il 14,69% andò peggio del previsto, Mastella, col 4,56%, un po’ meglio. Il vero vincitore, però, sembrò essere il metodo delle primarie. Aveva partecipato una massa di elettori enorme, superiore a ogni aspettativa.

Il viatico per il trionfo nelle elezioni politiche appariva indiscutibile e forse anche per questo la coalizione, sentendosi già certa della vittoria, non affrontò la prova con il mordente necessario. L’Unione vinse, ma di strettissima misura: la classica vittoria di Pirro, Prodi restò al governo per meno di 20 mesi. Il limite delle primarie era già evidente: alla chiamata rispondevano quelli che erano già convinti di votare per il centrosinistra, la capacità di allargamento della platea era invece inesistente. Le primarie del Pd si svolsero due anni dopo, il 14 ottobre 2007, e siglarono la fondazione ufficiale del nuovo partito il giorno stesso. Partecipavano Walter Veltroni, sulla cui vittoria non c’erano dubbi, con Franceschini vice, Rosy Bindi, Enrico Letta. Aveva annunciato la candidatura anche Bersani: Letta avrebbe dovuto figurare come suo vice. Le pressioni del vertice lo costrinsero a ripensarci: chiese disciplinatamente di votare per Veltroni e Letta rimase solo. Pannella e Di Pietro chiesero di candidarsi anche loro. Gli fu impedito a norma di regolamento.

Doveva essere una prova di forza e lo fu, per il partito in culla e per Veltroni. Negli 11mila gazebo sparsi in 7mila comuni si recarono, secondo le stime non verificate fornite dal Pd 3.554mila persone, sedicenni e immigrati inclusi. Veltroni prese il 75,82%, Bindi il 12,93%, Letta l’11,02%. La fondazione del Pd innescò il conto alla rovescia per il governo Prodi: Veltroni riteneva di non poter aspettare anni, altrimenti la spinta della novità in campo e delle affollatissime primarie sarebbe stata neutralizzata. Ma la stessa illusione ottica di cui era stata vittima l’Unione tre anni prima si ripeté nel caso del Pd, che si convinse di poter battere col “partito a vocazione maggioritaria” la destra salvo sbattere su una realtà arcigna prima nelle elezioni politiche del 2008, poi in quelle sarde del 2009. Eletto a furor di gazebo nell’ottobre 2007, Veltroni si dimise 14 mesi più tardi, dopo la mazzata sarda.

Nelle nuove primarie, 25 ottobre 2009, le regole cambiarono. Si votava in due turni: prima i circoli del Pd, poi i gazebo chiamati a scegliere tra i candidati che su base nazionale superavano nei circoli il 5% su base nazionale o comunque il 15% fino a un massimo di 6. Si scontravano Franceschini, già segretario-ponte dopo l’uscita di scena di Veltroni e Bersani: il primo sostenuto essenzialmente dai “veltroniani”, il secondo dall’area dalemiana. Outsider il medico romano Ignazio Marino che passò a sorpresa il primo turno. La candidatura di Beppe Grillo fu respinta grazie a un cavillo. I votanti furono di nuovo moltissimi, 3.100mila persone. Bersani ce la fece con il 53,2% contro il 34,3% di Franceschini e il 12,5% di Marino che comunque grazie a quella prova si trovò la strada spianata per vincere le primarie per la candidatura alla guida del Comune di Roma, poi effettivamente conquistata.

Lo scontro nelle primarie del 2009 fu reale anche se la vera battaglia nel Pd sarebbe stata combattuta solo nel 2012, nelle primarie di coalizione per la candidatura nelle politiche del 2013. Bersani e Matteo Renzi provenivano entrambi dal Pd ma intendevano guidarlo in direzioni opposte. Le regole prevedevano due turni, salvo che uno dei cinque concorrenti superasse il 50% dei consensi già nella prima tornata, il 25 novembre 2012, alla quale parteciparono 3.110mila elettori. Al ballottaggio arrivarono, come previsto, il segretario e il sindaco di Firenze. Votarono 2.802mila, prevalse Bersani col 60,9%. Ma per l’ennesima volta le primarie si dimostrarono un viatico ingannevole.

Il Pd, grande favorito, non vinse le elezioni politiche del 2013, Renzi si vendicò della batosta subita silurando prima Marini e poi Prodi nell’elezione del capo dello Stato, Bersani rassegnò le dimissioni e proprio Renzi lo sostituì nello stesso 2013, l’8 dicembre, dopo aver vinto primarie senza storia. Oltre a lui, i candidati in corsa dopo i congressi dei circoli erano Gianni Cuperlo e l’ex renziano Beppe Civati. Con il 67,55% dei 2.814mila votanti nei gazebo Renzi li schiantò senza sorprese. Renzi è stato il solo segretario del Pd, sinora, ad aver vinto due primarie. Nella prova del 20 aprile 2017 il numero degli elettori scese però vertiginosamente, sino a 1.817mila voti validi.

Il segretario, dopo aver spopolato nei circoli, si affermò con il 60,17% contro Orlando ed Emiliano ma il secondo mandato ebbe vita breve: le dimissioni arrivarono subito dopo la sconfitta elettorale del marzo 2018. Le successive primarie, quelle del 3 marzo 2019, le ultime sinora, sono state una formalità. Zingaretti le stravinse col solito 66% contro Maurizio Martina e Roberto Giachetti, candidati quasi di bandiera, ma su una platea elettorale ulteriormente smagrita: 1.582mila votanti. Zingaretti ha retto due anni, fino al marzo 2021 e per incoronare il successore Letta, che a due anni non c’è arrivato, sulle primarie si è soprasseduto. Se l’esperienza ha un senso, si potrebbe dire che forse il metodo delle primarie non è precisamente il migliore e se quella è “l’identità del Pd” forse sarebbe ora di aggiornarla.

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