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Lo “sparatore sconosciuto” è solo una delle fantasie su Moro… – Il Riformista

De Vuono a parte, il Doc. XXIII, n. 37, Sez. 7 propone una ricostruzione dell’attacco in via Fani che si caratterizza per tre aspetti. Il primo, è la conclusione «con altissima probabilità» che uno degli sparatori colpisse dal lato destro di via Fani anziché dal sinistro come gli altri (p. 45); il secondo è la tesi che il vicebrigadiere Zizzi, il quale fu trovato riverso sul sedile della seconda auto di scorta, in realtà nel corso dell’attacco fosse uscito dalla vettura, avesse tentato di reagire, fosse stato raggiunto dai proiettili brigatisti e, non essendo deceduto all’istante, fosse rientrato nella vettura e avesse provato a dare l’allarme alla Centrale di Polizia usando l’autoradio, sebbene non ci fosse riuscito (p. 29); il terzo, è che uno «sparatore sconosciuto» si sia «dileguato autonomamente» rispetto agli altri aggressori (p. 17).

Si tratta di affermazioni in contrasto con le precedenti ricostruzioni giudiziarie, parlamentari e storiografiche, mentre limitatamente alla questione del lato destro trovano qualche rispondenza nella pubblicistica. Preliminarmente, va ricordato che a sparatoria conclusa una folla invase la sede stradale prima che la Polizia avesse avuto il tempo di fare tutti i rilevamenti del caso, che alcuni bossoli giacenti sull’asfalto furono prelevati dai curiosi o spostati involontariamente con i piedi, sortendo effetti che la pendenza di via Fani probabilmente accentuò, e che gli assalitori non erano fermi su piazzole di tiro bensì erano liberi di muoversi e, naturalmente, si mossero. La Polizia Scientifica, incaricata dalla commissione Moro-2 di ricostruire la dinamica dell’attacco, nel 2015 puntualizzò infatti che un brigatista «nella fase finale dell’agguato si è spostato, girando intorno alle vetture, per portarsi sul lato destro», dal quale fece partire alcuni colpi all’indirizzo degli uomini della scorta. Bisognerebbe andare assai cauti, pertanto, se si volessero disegnare scenari rivoluzionari poggiandosi sull’analisi delle traiettorie intra-somatiche dei proiettili e sulle posizioni dei bossoli.

Tornando al Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, si rileva che la testimonianza della signora C. D. (pp. 15-17) riferisce esclusivamente di spari dal lato sinistro (né poteva essere altrimenti, data la posizione nella quale ella aveva trovato riparo). La nuova planimetria di via Fani tracciata su incarico dell’Antimafia deve essere posteriore alla data di (ri)nascita dell’Antimafia stessa, 7 agosto 2018, il che però significa che è posteriore pure rispetto alla risistemazione di via Fani che fu fatta in funzione della costruzione di una nuova e più imponente lapide inaugurata il 16 marzo 2018. Al fine di creare un’area di rispetto davanti al monumento funebre, uno dei marciapiedi della via fu allargato occupando parte della corsia destra (quella a scendere) e corrispondentemente fu ristretto il marciapiede a sinistra. Nel 1978, insomma, la situazione era leggermente diversa da come è divenuta a partire da marzo 2018. Dando per scontato che la planimetria fatta preparare dall’Antimafia sia fedele all’aspetto che l’area aveva nel 1978, ciò implicherebbe che è stata sviluppata partendo dai dati disponibili già in passato. Di conseguenza né la testimonianza di C. D. del 2022 né la planimetria a lei mostrata recano riscontri che possano dirsi nuovi all’ipotesi -vecchia- che un tiratore fosse appostato sul lato destro.

Riguardo a Zizzi, la dinamica prospettata dal Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII è diversa dai racconti di tutti i testimoni oculari, di ieri e di oggi: stando al testo, non vide nulla del genere neppure la signora C. D., benché ella fosse ben posizionata per osservare l’automobile sulla quale viaggiavano Iozzino e Zizzi. L’Antimafia, che nel descrivere la fi ne di Iozzino si basa largamente sulla signora C. D., pare dimenticarsi di lei quando si tratta di Zizzi. Di certo l’estensore della relazione (il magistrato Guido Salvini?) ha ignorato le affermazioni del dirigente della Polizia Lamberto Giannini, audito dalla Commissione Moro-2 l’8 luglio 2015 insieme a due suoi colleghi della Scientifica, il quale escluse persino che Zizzi fosse sceso dalla vettura.

Dal Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII nulla trapela circa le repliche della Polizia Scientifi ca alle contestazioni da parte dell’Antimafia, e viene persino da domandarsi se tali contestazioni le siano state mosse. Lo «sparatore sconosciuto» (perché mai non dovrebbe trattarsi di uno dei dieci brigatisti conosciuti?), a rigore, nessuno sa come si sia dileguato: neanche la testimone C. D. Prova ne sia che l’elaborato dell’Antimafi a, nella nota 103 di pag. 45 scrive che «non è peraltro escluso» che l’uomo si sia allontanato a bordo della moto Honda di cui tanto si parla da sempre. Se la testimone C. D. lo avesse seguito con lo sguardo fi no al momento in cui egli si dileguò, non ci sarebbero margini di dubbio sul mezzo di trasporto da lui adoperato.

Ma se non lo seguì con lo sguardo fino ad allora, non si può essere certi che l’uomo non si sia unito ad altri brigatisti qualche attimo dopo che la signora lo aveva perso di vista. Le perplessità sulle affermazioni del Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII appena illustrate vanno accompagnate da qualche rifl essione sulla tematica che esso affronta rispetto alla vicenda Moro nel suo complesso. Cosa cambierebbe se uno degli attaccanti avesse sparato da destra anziché da sinistra? O se uno di loro si fosse allontanato da via Fani da solo e non insieme agli altri? Poco o nulla, poiché non basterebbe affatto a dimostrare che il presunto tiratore da destra e/o il presunto fuggiasco solitario fossero estranei alle BR. Non basterebbe nemmeno a dimostrare il presunto occultamento di chissà quale complotto da parte dei brigatisti, perché nessuna testimonianza di scene del genere di quella di via Fani può essere esatta fin nei minimi particolari -e infatti ci sono divergenze pure tra i racconti dei passanti – specie a distanza di anni. Oltre tutto, i terroristi erano intenti a rapire Moro ed annichilire i suoi difensori, non ad annotare particolari da riferire in futuro agli inquirenti.

Con il trascorrere degli anni spesso si mettono di mezzo anche i vuoti, gli inganni e gli inquina menti della memoria. Dare esagerato rilievo a ricerche di estremo dettaglio e inessenziali quando esse sembrano suscettibili di aprire una sia pur minuscola crepa all’interno del mosaico che sin dal 1983 la magistratura e la commissione parlamentare Moro-1 assemblarono, e che poi gli storici hanno arricchito, è un atteggiamento che accomuna il Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII ad altri contributi di varia natura e provenienza, non una sua esclusiva. Si potrebbe anzi argomentare che l’Antimafia non abbia potuto fare di meglio perché, a differenza di altri, è stata condizionata dal poco tempo a disposizione (ulteriormente accorciato dalla fi ne anticipata della Legislatura XVIII) nonché dalla concomitanza di molti altri temi cui si era impegnata a dedicare attenzione e risorse. Resta il problema, comunque, che il criticismo portato all’eccesso rischia di produrre -consciamente o no- un mutamento dell’oggetto di studio, che finirebbe per non essere più il caso Moro, bensì diventerebbe il grado di precisione formale con cui il caso Moro è stato rappresentato finora.

Il senso della misura deve aiutarci a non cadere nell’errore di immaginare che qualora si scoprisse un’inesattezza marginale nella ricostruzione consolidatasi in più di quarant’anni di inchieste e studi, -cosa teoricamente possibile e anzi probabile, continuando ad esplorare al microscopio ogni singolo punto di una vicenda durata cinquantacinque giorni intorno alla quale si diedero da fare migliaia di persone- allora tutto andrebbe azzerato e rifatto da capo. Tranne rare e fallimentari eccezioni, le dietrologie del caso Moro finora non sono state capaci di offrire compiute alternative alla tesi secondo cui quella vicenda fu l’apice di una lotta armata condot ta coerentemente dalle BR per quasi venti anni, che ebbe quale bersaglio politico privilegiato la Democrazia Cristiana e si concluse dieci anni dopo Moro con l’omicidio di un altro esponente dello scudo crociato, il senatore Roberto Ruffilli. Non a caso, molte volte, i complottisti si trincerano nella paradossale affermazione che ancora non si sarebbe indagato abbastanza (!) e si limitano ad esercizi di decostruzione minimalistici che non porterebbero lontano neppure qualora andassero a buon fine.

L’inchiesta dell’Antimafia sul caso Moro, in definitiva, è stata un secondo tentativo parlamentare di riscrivere il caso Moro rimasto, però, molto al di sotto delle ambiziose aspettative iniziali. La volta precedente, quella della Moro-2 della Legislatura XVII, l’allora presidente Fioroni aveva pronosticato che gli storici sarebbero stati costretti ad un super-lavoro per stare dietro alla sua Commissione (resoconto della seduta 1 luglio 2015), ma al termine ammise che l’opera dell’organismo parlamentare era stata «frammentaria» (seduta del 6 dicembre 2017) e diede segno di essersi smarrito al punto di non riuscire più nemmeno a dire «con precisione chi ha ucciso Aldo Moro e come, dove e perché» (Moro. Il caso non è chiuso, Lindau, Torino 2018, p. 8). Indubbiamente l’Antimafia, come si diceva, ha l’attenuante di essere stata costretta a interrompere la propria inchiesta prima del previsto. In ogni caso, nel contesto della recentissima ricostituzione di una commissione parlamentare Antimafia nella corrente Legislatura XIX e di altre proposte di istituzione di commissioni parlamentari d’inchiesta che circolano attualmente, sarà bene tenere conto delle difficoltà incontrate nella Legislatura XVIII e valorizzare meglio il patrimonio delle conoscenze già maturate. Queste ultime sono in grado di dare agli interrogativi su caso Moro e più in generale sulla lotta armata, -il contesto in cui il caso Moro si colloca-, risposte molto più esaurienti e convincenti di quanto alcuni suppongono ce ne siano.

*Già curatore della documentazione della Commissione parlamentare d’inchiesta su terrorismo e stragi dal 1989 al 2001, è stato poi autore di numerosi studi e lavori sul caso Moro. Tra i suoi volumi, il primo fu Odissea nel caso Moro, (Edup, Roma 2003) e il più recente è Moro. L’inchiesta senza fi nale (Edup, Roma 2018), quest’ultimo scritto insieme a Fabio Lavagno (a sua volta ex-componente della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro-2).

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