L’attacco alla riforma
Gian Domenico Caiazza — 14 Gennaio 2023
Quello che sta accadendo riguardo al tema dei reati che, riqualificati dalla riforma Cartabia come procedibili a querela e non più di ufficio, sarebbero da oggi impuniti, perfino se commessi da boss mafiosi, è letteralmente surreale. Facciamo un passo indietro. Sono decenni che tutti concordano sul fatto che la giustizia penale nel nostro Paese sia soffocata da un numero di procedimenti penali talmente esorbitante da risultare fisicamente ingestibile. Anni addietro il problema si risolveva con le periodiche amnistie; dopo la riforma costituzionale di quell’istituto, si è usata la prescrizione, salvifica soluzione per le Procure, che determinando a propria discrezione le priorità di trattazione, la lasciavano maturare per una grande parte dei procedimenti relativi ai reati ritenuti di gravità minore.
Le sfiancanti discussioni sulle possibili soluzioni di questa anomalia, senza intaccare il sacro principio della obbligatorietà dell’azione penale, portano immancabilmente a due indicazioni: ampia depenalizzazione, ed allargamento del catalogo dei reati perseguibili a querela. La prima delle due strade viene osteggiata dal fanatismo pan- penalista che pervade la nutrita popolazione di politici e giornalisti di schietta ispirazione giustizialista e populista. A costoro viene l’orticaria solo se provi ad avviare un ragionamento sul restringimento del numero dei reati, ipotesi vissuta come una resa dello Stato alla criminalità. La seconda strada è parsa allora l’unica ragionevolmente praticabile agli architetti di una riforma cui l’Europa, in cambio di una consistente quantità di denari, ha chiesto di rendere meno pachidermica la paralizzata giustizia penale italiana.
Naturalmente, i reati a querela di parte non sono stati inventati da Marta Cartabia: esistono da quando esistono i codici penali. La logica è chiarissima: è vero che l’azione penale è obbligatoria, ma per i reati di minore o media gravità l’impegno dello Stato nel perseguirli è condizionato alla esplicita richiesta della persona offesa. Dunque dovrebbe essere facilmente comprensibile che fissare l’obbligo di querela non equivale ad affermare l’impunità per quei reati, ma solo a subordinarne il perseguimento e la punizione alla espressa volontà della parte offesa. Ovviamente, se l’autore di un reato a querela viene colto in flagranza (o quasi flagranza) di reato, intanto potrà essere fatto oggetto -ad esempio- di misura cautelare, in quanto sia stata attivata quella condizione di procedibilità (si chiama così).
Il crimine contro l’umanità che con crescente esagitazione si addebita alla riforma Cartabia è dunque di aver implementato il catalogo -da sempre esistente- dei reati a querela. Naturalmente si può discutere, come sempre, della scelta di questo o quell’altro reato, o della mancata scelta di qualche altro. Per esempio, indigna che sia stato compreso il sequestro di persona (semplice). Opinione legittima, ma è bene ricordare che, prima della riforma Cartabia, sono perseguibili a querela -chessò- la violenza sessuale, o lo stalking, reati non certo meno gravi di un sequestro di persona semplice (che è infatti punito con una pena molto contenuta). E come mai fino ad ora non ha fiatato nessuno? Ma qui la polemica è esplosa, come sempre accade, su fatti di cronaca rilanciati a casaccio, quando non in modo intellettualmente disonesto. I tifosi che hanno dato luogo alla indegna gazzarra in quell’autogrill autostradale, si sono resi responsabili di reati tutti ricadenti nella riforma: danneggiamento, lesioni personali, violenza privata: di qui, la esplosione di questa isteria collettiva.
Naturalmente, costoro sono stati identificati: saranno le persone offese dai vari reati a decidere se debbano essere puniti. La discussione che si è scatenata sembra presupporre invece che la riforma abbia sancito la impunità di questi comportamenti, il che è semplicemente falso, salvo a non attribuire questo stigma a tutti i reati a querela, a cominciare dalla violenza sessuale.
Addirittura surreale è poi il tema dell’aggravante mafiosa di questi reati, cui la riforma Cartabia avrebbe la sanguinosa colpa di non aver attribuito l’effetto di escludere la perseguibilità di ufficio. Si può certamente discutere della opportunità di introdurre questo nuovo meccanismo, ma si tratterebbe appunto di una assoluta novità, giusta o sbagliata, opportuna o superflua che la si voglia giudicare.
Cosa c’entra la riforma Cartabia? Mai le modalità mafiose di commissione di reati a querela di parte (nemmeno per il reato di minacce!) ha trasfigurato il reato stesso in termini di perseguibilità di ufficio! Eppure leggiamo incredibili titoli che addebitano a questa riforma addirittura responsabilità di imbelle fiancheggiamento in favore dei boss mafiosi. Infine, quando si rende perseguibile d’ufficio un reato che era a querela, la nuova norma, in nome del generale principio della retroattività delle norme più favorevoli agli imputati, si applica anche ai procedimenti in corso, dandosi alle parti offese un termine per mantenere in vita il procedimento. Ancora una volta, del tutto a prescindere dalla vituperata riforma Cartabia. Quando sarà possibile parlare in modo serio e civile di giustizia penale, in questo Paese?
Presidente Unione CamerePenali Italiane
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