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Il carcere liberale non esiste, ecco perché – Il Riformista

Continua la strage di suicidi

Giuseppe Losappio — 17 Marzo 2023

Il carcere liberale non esiste, ecco perché

“Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Era il 25 ottobre quando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni pronunciava alla Camera dei deputati il discorso “per la fiducia”. Alla fine dell’anno il “bilancio” dei “morti di pena”, secondo il tragico palindromo di “Nessuno tocchi Caino” è cresciuto di altre 13 vittime: 84 detenuti, 78 uomini e 5 donne, il numero più alto dal 2000 e in percentuale 20 volte superiore a quello che si registra al di fuori del carcere. Nel 2023 i decessi a oggi sono stati 2.

Sono dati sconfortanti che sembrano confermare le convinzioni di chi discosta le prospettive del diritto penale liberale da quelle del carcere, perché crede che parlare di carcere liberale sia un ossimoro. Il carcere non è liberale per definizione. Il carcere liberale non esiste in concreto come in astratto. Liberale è solo il carcere che viene eliminato. Il messaggio potrebbe essere reso parafrasando la celebre frase tratta dalla Filosofia del diritto di Gustav Radbruch esortando il legislatore e tutti i protagonisti dell’esperienza giuridico-penalistica a non cercare un carcere migliore ma qualcosa di meglio del carcere. Nel breve medio-periodo, sarebbe un obiettivo utopistico se pensassimo nell’ottica di una definitiva abolizione dell’istituzione penitenziaria. Per quanto difficile sia per lo studioso formulare previsioni del futuro, anche in un orizzonte di lungo periodo punire resterà necessario, una quota del bisogno di punizione dovrà essere “soddisfatta” dal diritto penale e una frazione, più o meno consistente del diritto penale, resterà legata al carcere.

L’esperienza, tuttavia, sembra dare almeno in parte ragione al pensiero espresso da Rudolf von Jhering, ne Lo scopo nel diritto: la storia della pena, quella capitale e quella carceraria, in particolare, è la storia di una «continua abolizione». Liberale, dunque, è la prospettiva che non si punisca se non nella misura strettamente necessaria; che il ricorso al diritto penale sia circoscritto ai casi in cui altre sanzioni sono inadeguate o insufficienti, che il ricorso alla pena carceraria sia limitato ai casi in cui altre sanzioni penali sono inadeguate o insufficienti. In ogni caso, la sussidiarietà della punizione, della punizione penale, della pena carceraria dovrebbe essere affermata in astratto e in concreto e, quindi, pensando non solo al legislatore. Occorre ampliare lo sguardo alla fase della comminatoria e dell’esecuzione della pena fornendo al giudice gli strumenti per escludere o far cessare la detenzione quando, ancora una volta, accerti che può dirottare l’istanza di punizione verso qualcosa di meglio rispetto al carcere.

È un punto chiave perché l’esperienza dimostra che quella storia di abolizione della pena non si è svolta tanto sul versante delle fattispecie e delle cornici edittali ma su quello delle sanzioni sostitutive, delle alternative al processo o alla pena e soprattutto dell’esecuzione, dalla riforma Gozzini in poi. Spesso si è trattato di un trade off sincrono o asincrono. Più penale in astratto meno penale in concreto, riduzione non di rado generata dalla elefantiasi stessa del sistema. Il penale in astratto resta un penale carcerocentrico. Il penale in concreto lo è meno. Spesso si è fatto – passatemi la gergalità – di necessità virtù, com’è accaduto dopo la sentenza Torregiani. Più che all’utilità di lungo periodo della prevenzione generale si è guardato all’utilità di breve periodo dello svuotamento delle carceri, purtroppo spesso solo transitorio.

Le riforme degli ultimi sei o sette anni sembrano segnare una definitiva inversione di tendenza ma forse il periodo non è dei più indicati per avventurarsi in previsioni sul domani del sistema penale. L’oggi, del resto, interpella la coscienza del penalista richiamandolo anche alla consapevolezza che il carcere in Italia è sempre più una discarica sociale, l’espressione più ruvida di quella funzione rimozionale del diritto penale che costituisce una cifra perenne della penalità ma che i circuiti della giustizia penale mediatica catalizzano parossisticamente. Se non dobbiamo rinunciare a progettare qualcosa di meglio del carcere, questo fronte dell’impegno comune non deve farci dimenticare l’urgenza di un carcere migliore.

*Ordinario di Diritto Penale, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

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