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“Decreto Cutro, non si affronta così un fenomeno complesso come l'immigrazione”, intervista a Padre Camillo Ripamonti – Il Riformista

Cambiare “rotta” nel mediterraneo. Con al “timone” Papa Francesco. La rotta dell’umanità. La parola a padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Nel Mediterraneo le stragi di migranti si ripetono in modo drammatico. Invece di intervenire sulle ragioni strutturali della “grande fuga” dalle aree di guerra e di sofferenza, in Italia, si assiste ad uno scaricabarile delle responsabilità.
Purtroppo è una scena che abbiamo già visto tante, troppe volte in questi anni, con modalità diverse in rapporto anche ai governi che si sono succeduti. Non c’è una doverosa assunzione di responsabilità da parte di chi di dovere, c’è uno scaricabarile che lascia interdetti. Quando le istituzioni sono chiamate direttamente in causa, coloro che hanno responsabilità di governo o comunque potere decisionale, pensano di cavarsela richiamando la responsabilità europea. Tutto questo è inaccettabile. E’ tempo che l’Italia faccia la propria parte cominciando a salvare in modo sistematico le vite, facendo un’azione concreta, come fu con Mare Nostrum, per poi chiedere all’Europa di fare la sua parte in modo concreto. Altrimenti il rischio è che continuino ad aumentare i morti, le persone disperse nel Mediterraneo.

Alcuni giorni dopo la strage di Cutro, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto tenere una seduta del Consiglio dei ministri nella cittadina calabrese. Padre Ripamonti come valuta le decisioni assunte in quella seduta del governo in materia di migranti?
Disorganiche e inadeguate. A Cutro abbiamo assistito alla presentazione di una serie di proposte senza regia, che raccontano il volto di una politica priva di una visione d’insieme sul tema migratorio. Inasprire le pene, parlare indistintamente di trafficanti e scafisti, fermare i movimenti primari, aumentare i centri per il rimpatrio, restringere il permesso di soggiorno per casi speciali, rimodulare i decreti flussi sono misure disorganiche, inadeguate per gestire un fenomeno complesso che richiede una riforma strutturale che metta al centro vita e dignità delle persone.

In cosa dovrebbe consistere questa riforma strutturale?
Occorre mettere subito in atto misure per salvare vite in mare, attivare canali e visti umanitari e gestire l’accoglienza in modo proporzionato e dignitoso. Le persone scappano dalla guerra, da regimi illiberali e da miseria. Evitare le partenze non è possibile è non può essere la soluzione. Il diritto d’asilo ne esce ancora una volta calpestato e impoverito. E’ giunto il momento di una politica con una regia che tenga insieme tutto il fenomeno migratorio. In questi giorni così drammatici abbiamo visto come le partenze, gli arrivi se non vengono coordinati in modo lungimirante e tenuti insieme tutti gli aspetti, si rischia un caos generale.

Le partenze, si diceva. Come può il governo, le chiedo, di fronte a queste tragedie reiterate continuare a considerare la Libia un porto sicuro, o scaricare le responsabilità dell’ultima strage chiamando in causa una zona Sar libica che nei fatti non esiste?
Anche questo fa parte di una storia di anni nella quale ci siamo infilati, colpevolmente: quella dell’esternalizzazione dei confini. Una politica sciagurata che viene portata avanti a tutti i costi senza guardare in faccia quella che è la realtà dei paesi con i quali si fanno degli accordi per trattenere i migranti. La storia ci riporta al 2015-2016, quando l’Europa fece l’accordo con la Turchia, bloccando i profughi siriani e riempiendo per questo di miliardi Erdogan, per poi applicare la stessa logica e metodologia con la Libia. Sappiamo bene cosa abbia comportato il trattenere le persone sul suolo libico. Tutti l’hanno detto in questi anni. Non è un porto sicuro, i centri di detenzione non sono tali ma sono centri nei quali le persone vengono torturate, schiavizzate. Eppure negli anni si è continuato a far finta che tutto questo non ci fosse. Continuare a fingere che non esista questa realtà rischia di peggiorare ulteriormente una situazione già drammatica e reiterare le stragi in mare.

Nel riferirsi alla moltitudine di esseri umani che a rischio della vita cercano di scappare da guerre, pulizie etniche, disastri ambientali, povertà assoluta, si manifesta una violenza semantica che dovrebbe far inorridire. Si parla delle persone ammassate nei barchini come “carichi residuali”.
In questo ci viene in aiuto Papa Francesco. In questi anni lui ha parlato di una cultura dello scarto, per cui queste persone sono, appunto, degli scarti, citando Hannah Arendt, la quale negli anni ’40 aveva messo in guardia contro quella pseudo cultura montante che considerava i rifugiati come schiuma della terra. Persone che non hanno alcun diritto ad avere diritti e quindi sono uno scarto. Definirli carico residuale non è altro che l’esplicitazione di questa cultura che ha fatto di centinaia di migliaia di persone, persone sacrificabili. Questo è drammatico, intollerabile. Se arriviamo a definire delle persone scarti o persone sacrificabili, abbiamo raggiunto un livello bassissimo di umanità se ancora si può utilizzare questo termine.

A proposito di definizioni sprezzanti. C’è chi, anche dentro il governo, liquida le navi Ong che operano nel Mediterraneo come “taxi del mare”.
Questo fa parte ancora della costruzione di un immaginario per legittimare le politiche che sono andate avanti negli anni. Chi non è d’accordo con queste politiche viene tacciato di essere corresponsabile delle partenze, di esserne il pull factor, quando in realtà le Ong in mare sono poche e nonostante questo c’è stato un aumento esponenziale delle partenze dal Nord Africa. Questo armamentario di violenza lessicale è funzionale alla ricerca del consenso per politiche che sono escludenti, respingenti da parte dell’Italia e dell’Europa. Funzionali alla costruzione, non solo fisica ma anche culturale, di senso, dell’Europa come fortezza. E chi si oppone a questa deriva, viene screditato in ogni modo e in diversi casi addirittura criminalizzato. C’è stato un tempo in cui la solidarietà in generale veniva tacciata, in senso spregiativo, di buonismo e i “buonisti” trattati nel migliore dei casi come dei poveri illusi che aprivano le porte a gente della peggior specie.

Molte delle persone che sono morte in mare, provenivano da paesi segnati dalle guerre, alcune delle quali volute o comunque assecondate o colpevolmente ignorate dall’Occidente. Padre Ripamonti, ci stanno presentando il conto?
Certamente ci stanno dicendo che il mondo globale, come in questi anni ci siamo abituati a definirlo, è tale a 360 gradi. Un mondo in cui decisioni che non vanno nell’ordine della giustizia, dell’uguaglianza, finiscono, prima o poi, per ripercuotersi anche su coloro che con una certa superficialità, definiamola così, hanno preso determinate decisioni. Non so se ci stanno presentando il conto. Certo è che queste persone sono vittime di sistemi ingiusti che l’Occidente ha sostenuto, alimentato, contraddicendo quei valori e principi di libertà e di giustizia che pure venivano tirati in ballo per giustificare l’ingiustificabile. Queste persone hanno tutto il diritto di cercare altrove quella felicità, quella giustizia che le sono negate nei loro paesi.

Parole come giustizia, accoglienza, inclusione, vengono spesso “predicate” e meno praticate. Non c’è un bisogno fortissimo di una cultura del fare capace di coniugare idealità e concretezza in un agire quotidiano?
Direi senz’altro di sì. Ma in questo non siamo all’anno zero. C’è una società civile che giorno per giorno porta avanti solidarietà, accoglienza, una quotidiana attenzione a curare le ferite di questo mondo dolente. Il fatto è che questo mondo solidale spesso viene messo a tacere e oscurato, anche mediaticamente oltre che dalla politica, quando prova a dar voce a chi non ha voce. Ma questa società civile esiste, è viva, partecipe, e cerca giorno dopo giorno di ricucire questo mondo strappato. Va ascoltata la voce di questa società civile che poi è la voce di chi è ferito e non riesce ad esprimere i propri bisogni e aspettative.

Lei faceva riferimento alla giustizia. Se un giorno dovesse realizzarsi una “Norimberga del Mediterraneo”, sul banco degli imputati dovrebbero esserci soltanto i trafficanti di esseri umani?
Credo che a quel punto saremmo tutti coinvolti. Ciascuno, nel proprio ambito e livello di responsabilità, ha voltato la faccia da un’altra parte, da singoli cittadini alle istituzioni. Su quel banco degli imputati ci siamo un po’ tutti. Non siamo fuori tempo massimo per cambiare rotta rispetto a queste politiche di chiusura e respingimento. In questi giorni cadono i dieci anni del pontificato di Bergoglio. Papa Francesco è colui che in questi dieci anni ci ha aiutato a tenere la rotta dell’umanità. Credo che in quella ipotetica Norimberga del Mediterraneo, se non vogliamo finire tutti coimputati, responsabili di quello che adesso stiamo vedendo, dobbiamo cambiare rotta, come ci ha esortato a fare più volte Papa Francesco, e aprire questa nostra Europa. Perché quella cittadinanza sia una vera cittadinanza per tutti, che garantisca eguali diritti e non faccia di quei diritti di cittadinanza privilegi in una Europa che vuole ripiegarsi su se stessa.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

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