In copertina uno dei quadri ispirati alla Shoah. Sono tanti, molti di artisti che hanno dipinto opere commemorative su questo genocidio. E molti di loro l’hanno vissuta sulla propria pelle.
Maria Catalano Fiore
Il termine Shoah: calamità, catastrofe, distruzione, derivato dalla lingua ebraica è utilizzato già nella Sacra Bibbia.
Il termine viene ripreso alla fine degli anni ’40 per tentare di definire il genocidio degli ebrei con i due termini Olocausto e Shoah. Olocausto, utilizzato per primo, ha una etimologia greco-antica e ricorda il sacrificio di un animale che doveva essere completamente bruciato senza che la comunità potesse consumarne una parte. Preciso è il richiamo ai forni crematori, che non avevano, però, alcun significato religioso, anzi rappresentavano un messaggio offensivo nei confronti delle vittime.
Si comincia, quindi, ad usare il termine Shoah nel 1951 in Israele con l’istituzione della giornata nazionale dedicata alla commemorazione dello sterminio sancita internazionalmente, ed identificata nel 1945, nel 27 gennaio, del 1945, giorno in cui le truppe dell’armata rossa liberarono i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz.
La Shoah è solo un capitolo di una lunga storia di antisemitismo basata su pregiudizi e ostilità millenarie. Terreno fertile su cui le ideologie naziste attecchirono ed ancora attecchiscono bene: vengono promulgate, nel 1935, le “Leggi di Norimberga” ed in Italia, nel 1938 le “Leggi antisemite“, meglio note come “Leggi razziali”.
Numerosi artisti, poeti e letterati hanno dedicato le loro opere alla Shoah. In quel periodo, e proprio in quel campi di sterminio, anche bambini o adulti senza alcuna formazione artistica crearono opere che costituiscono un importante memoriale per comprendere meglio le loro esperienze e le tragedie quotidiane. Uomini, donne, vecchi e bambini coinvolti direttamente nell’Olocausto, tra il 1933 ed il 1945, poiché ebrei, anche di lontana origine, o a causa delle loro ideologie politiche o orientamenti sessuali, o essere rom o semplicemente diversi, fisicamente o mentalmente.
L’arte stessa diviene terreno di scontro. Infatti, il Nazismo è promotore di un proprio stile distintivo che mette al bando tutta l’avanguardia moderna, bollata come “arte degenerata”, non solo riguardo al precedente movimento liberale della Bauhaus, chiusa immediatamente nel 1933, ma anche, l’espressionismo, l’astrattismo e ogni tendenza artistica anticonformista. Anche l’arte deve guidare verso la “definizione della razza ariana pura”.
Ma l’arte rimane viva, mostra la sua voce, il suo messaggio, nei ghetti, nei campi di concentramento, negli accampamenti partigiani e nei campi dei rifugiati. L’arte diventa, come sempre, uno strumento sociale per esprimere i contrastanti sentimenti di dolore e sgomento, rivolta e speranza delle vittime. Uno strumento della memoria per i superstiti e per le generazioni successive.
Tra i tanti artisti ne citiamo, solo alcuni, a partire da Marc Chagall, David Olère, Charlotte Salomon, ecc…
“La crocefissione bianca”, dipinto nel 1938, dopo la “notte di cristallo” da Marc Chagall (1887-1985), ebreo bielorusso, che può essere considerato il primo manifesto visivo di denuncia. Le persecuzioni ebraiche, in questo dipinto, acquistano valore universale attraverso la passione subita da Gesù, l’ebreo. Sullo sfondo vignette evocano le persecuzioni naziste e simboli di morte.
Le opere realizzate sono tante, famose o meno, molto interessanti quelle, recentemente rivalutate, di David Olère pittore e cartellonista, nato a Varsavia (1902-1985), deportato tra il 1943 ed il 1945, che disegna scenari di vita quotidiana ad Auschwitz-Birkenau.
Tra le donne le opere di Charlotte Salomon (1917-1943) artista tedesca, di origini ebraiche, autrice di una cospicua serie di dipinti autobiografici, ben 769 opere dipinte tra il 1941 ed il 1943 nel sud della Francia mentre si nascondeva dai nazisti. Muore, incinta, nell’ottobre 1943 ad Auschwitz.
Felix Nussbaum (1904-1944) esponente dell’Espressionismo tedesco, deportato ad Auschwitz, dove è morto, ha lasciato una straordinaria documentazione di autoritratti disperati, fra questi l’“Autoritratto con carta di identità ebraica“, del 1943.
Tante le pubblicazioni attinenti a questo tema e a questi artisti famosi o meno che hanno documentato l’Olocausto.
Una pittrice contemporanea Silvia Rea crea, nel 2017, un ciclo di opere dal titolo “I Bambini ci guardano”, eseguiti con colori acrilici su fogli di giornale. Una palese denuncia all’infanzia negata, a tutti i bambini, coinvolti in qualsiasi guerra.
In tutte queste opere, non solo le poche, prese in esame, il significato è simile, belle, ma con una tristezza infinita dentro, una sofferenza che rappresenta l’essenza stessa dell’olocausto.
“Che non debba mai ripersi” è ormai solo un luogo comune, troppi sono gli eccidi ed i genocidi di cui a volte ignoriamo anche l’esistenza…
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