Roma, 7 gen – Alla bandiera nazionale ci siamo in qualche modo “aggrappati” – esponendola dai balconi – quando la prima ondata di Covid-19 ci colse impreparati. Ma allo stesso tempo abbiamo colorato le strade nazionali di verde, bianco e rosso nel momento in cui gli azzurri, nel luglio 2021, ci hanno portato sul tetto d’Europa. Il calcio è infatti uno dei pochi contesti in cui (quasi) tutti si riscoprono orgogliosi della propria appartenenza.
Lunga storia quella del tricolore. Il primo Stato ad averlo adottato ufficialmente fu, il 7 gennaio 1797, la Repubblica Cispadana. Anche se convenzionalmente porta sulle spalle il peso di “soli” duecentoventisei anni, sappiamo che – sulla falsariga della Nazione fatidica – di strada ne ha fatta molta di più. La visione pascoliana ad esempio fa risalire la prima apparizione al tempo di Enea, nel contesto della guerra mossa da Turno, re dei Rutuli, contro l’eroe troiano. L’origine richiama infatti l’ancestralità indoeuropea: non solo cromaticamente accomuna l’Italia romana con l’Irlanda celtica e l’India vedica.
Il calcio, pratica identitaria
Torniamo però a parlare di calcio. Di per sé quest’ultimo non rappresenta un nostro simbolo specifico. E’ lo sport più diffuso, ma come in tanti altri paesi. Proprio per questo motivo non ci caratterizza. Essendo però un gioco di squadra, marcatamente fisico nonché largamente popolare, la sua pratica diventa naturalmente identitaria e comunitaria. Richiede sempre una netta distinzione tra un noi e un loro.
Più di un simbolo?
Un simbolo che accomuna tutti i tifosi dello stivale è semmai il drappo verde, bianco e rosso. Il tricolore “applicato” al calcio si connota per una caratteristica particolare. Esalta lo spirito nazionale, ma allo stesso tempo nutre un sano campanilismo interno. Siamo italiani proprio perché simultaneamente abbiamo particolarità provinciali o regionali. Non è un caso che chi segue la nazionale lo faccia mostrando al mondo la nostra bandiera portante il nome della città di provenienza. Il fatto poi di non avere uno stadio “casalingo” predeterminato – come al contrario succede in altre nazioni – alimenta questo virtuoso binomio.
Tricolore, non solo calcio
Uno dei pochi eventi sportivi in cui la bandiera assume – a livello di sentimento nazionale – una portata simbolica paragonabile all’arte pedatoria è l’Olimpiade. Pensiamo solamente a quanto clamore fece la possibilità (a un certo punto tutt’altro che remota) che l’Italia venisse estromessa dagli ultimi giochi a cinque cerchi. Se nel gennaio 2021 il governo non si fosse salvato in calcio d’angolo, a Tokyo non avrebbe sventolato il tricolore – né sarebbe risuonato l’inno di Mameli. I nostri atleti avrebbero gareggiato rappresentando loro stessi. Un’onta rimasta solo nel campo delle possibilità e che – fortunatamente – non ha macchiato il glorioso libro dello sport italico: senza quel simbolo tutto sarebbe stato svuotato di significato.
Altroché semplice elemento rinascimentale: rimane ancora un sacro punto di riferimento. Ben venga quindi una piazza festante, o un atleta vincente con il tricolore sulle spalle. A patto che non siano effimere fiammate, ma scintille pronte a far divampare il fuoco dell’amor patrio. Le vie per riscoprirci comunità di destino sono ovviamente altre, e ben più impervie. Ma in questi oscuri tempi un piccolo bagliore sarebbe già tanto.
Marco Battistini
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