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Storia e storiografia: la dittatura del pensiero unico | CulturaIdentità

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Il crollo del muro di Berlino il 10 novembre dell’89 configura la fine del comunismo.

Seguirono la riunificazione tedesca, libere elezioni in Polonia, Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia, un trapasso violento in Romania e l’esplodere di guerre nazionalistiche in Iugoslavia. Poi nel ’91 fu la fine dell’URSS.

Ma ciò che avvenne allora non fu che la diretta conseguenza di quanto già era maturato sul piano ideologico, economico e politico, perché quel modello non si era dimostrato in grado di competere con le democrazie.

«La rivoluzione — aveva scritto anni prima Augusto Del Noce — doveva coincidere con la soppressione dello Stato e doveva avere un carattere mondiale», ma è successo tutt’altro! Lo slancio palingenetico si è tramutato in serratura totalitaria, in arroccamento della rivoluzione su se stessa, in arresto della storia. Un’elefantiasi di Stato si è insediato e la burocrazia ha sovrastato gli individui. La società è stata imprigionata in una morsa ideologica. Per mezzo di una coercizione brutale è implacabile è stata imposta l’uniformità e sono state conculcate le più elementari libertà, tant’è che si doveva pensare e agire allineati a quei canoni e si era pregiudicati se non lo si faceva.

Ne è derivato un conformismo peggiore del passato, nella misura in cui quello era«un conformismo delle risposte, mentre questo risultava da una discriminazione delle domande per cui le indiscrete erano paralizzate quali espressioni di “tradizionalismo”, di “spirito conservatore”, “reazionario”, “antimoderno”» (Del Noce). Pertanto, si è reso impossibile il dissenso «non per vie fisiche, ma per vie pedagogiche» (Eric Voegelin).

Quando già la crisi era palese e la rivoluzione si era rivelata un obbiettivo mancato, una perfezione sfuggita marchiata però da una violenza reale, si è imposta una sorta di “obbligo alla menzogna”. Perché di fronte al fallimento la storiografia marxista non ha potuto far altro che falsificare il passato, come il presente.

L’intransigentismo rivoluzionario è divenuto allora intransigente innanzitutto storiograficamente. Ne andava del prestigio del comunismo. Sarebbe stato infatti come ammettere che la prassi, su cui quello aveva gettato l’onere della prova, non può salvare e che la storia è consegnata ad una regia superiore, oltre le verità di circostanza e le menzogne politiche, in direzione di una libertà personale che spezza ogni totalità.

Il post-comunismo

Riguardo a quanto avvenuto dopo, Giuliano Vassallo ha scritto che «l’esperienza storica ha screditato l’ideologia, ma non ha scalfito il potere alienante che l’illusione ha esercitato su coloro che avrebbero dovuto confutarla e contrastarla». Questo significa che oggi, seppure screditata, l’ideologia “progressista” sopravvive a livello culturale. Cosicché un potere di sacerdoti strettamente osservanti del suo mito continua a presidiare università e scuola, a governare giornali, ad influenzare case editrici e a condizionare emittenti televisive.

Sono i censori del politically correct, quelli che tagliano il mondo a fette e si sentono in diritto di selezionare le fonti della storiografia. Orfani della rivoluzione, sono senza futuro, ma tanto più si avvinghiano al passato rivendicando di esserne gli unici interpreti legittimi. Quindi è un progressismo senza novità. Perché è chiaro ormai che la rivoluzione futura, in nome della quale i loro sodali internazionali hanno perpetrato i peggiori crimini, non si realizzerà. La storia ha preso una direzione diversa e oggi si ritrovano contro i pifferai populisti che attirano i popoli nella voragine del regresso morale e della degradazione politica. La pancia si insubordina all’intellighenzia. I popoli rivogliono la sovranità e pretendono di autodeterminarsi.

Da qui ne viene quell’arroccarsi su presunte posizioni di superiorità morale con il conseguente atteggiamento di distacco snob che connota i radical chic.

Ma più si tenta da parte di questi illuminati in ritardo di costringere la realtà all’interno di quelle categorie e di quegli schemi logori, di imbracarla nelle maglie strette del pensiero unico, più questa sfugge, sorprende, resiste. Il moto reale degli eventi, delle volontà, delle riflessioni supera il potere di previsione dei sondaggi e le alchimie di un rivoluzionarismo impiantato su posizioni di potere culturale.

Cosicché non c’è da sorprendersi se oggi il rivoluzionario senza rivoluzione si rivela affatto conservatore quanto a interpretazione storica e pretende di imbalsamare la storia secondo le sue vetuste categorie: fascista/antifascista, progressista/retrogrado, liberale/reazionario etc.. Né può essere altrimenti, dal momento che egli «difende il puro esistente, sia pure nella sua crescitache si identifica col progresso, separato non soltanto dalla tradizione che ha negato, ma anche da un futuro reale» (Del Noce).

Ma la sua è una corsa senza direzione, verso la decostruzione fine a se stessa dell’esistente, verso il nulla.

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