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Rinascere con “La Terra dei Figli” di Stefano Zecchi | CulturaIdentità

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Stefano Zecchi, filosofo, scrittore, ordinario di Estetica, fondatore dell’avanguardia artistica “Mitomodernismo” e autore di numerosi romanzi e saggi tra i quali ricordiamo la sua radicale riflessione sull’arte e militanza culturale de L’artista armato – Contro i crimini della modernità (Milano 1999), firma oggi per la Signs Books il libro La terra dei figli, un Manifesto per una rinascita culturale del mondo conservatore e liberale e per l’Italia; una cultura non contro la dittatura della mediocrità della sinistra, ma plurale e libera. Di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione del libro, a firma del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (Andrea Lombardi).

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Appartiene al modus cogitandi di Stefano Zecchi l’interpellare le grandi questioni etiche, sociali e politiche da una prospettiva estetica. Zecchi fa parte, per intima convinzione e per lunga militanza accademica, di quella eletta schiera di spiriti seguaci del celebre motto dostoevskiano secondo cui “la bellezza salverà il mondo”. Certo il mondo ha assunto fattezze e mostrato abissi in questo primo quarto di secolo – il lasso di tempo cui questo Sillabario si riferisce – di proporzioni così inaudite che opporre a ciò l’implorazione del principe Myskin può suonare velleitario, anche se abbiamo il dovere di non abbandonare mai la speranza. Al contrario qui si tratta di potenza, di potere salvifico.

Ed è proprio l’autore ebreo russo cui Zecchi dedica l’incipit del suo testo – Vasilij Grossman, nato nella stessa cittadina oggi ucraina del romanziere Joseph Conrad, epico e disperato cantore, nonché vittima, della tragedia totalitaria del ventesimo secolo – a corroborare l’approccio del professore (anche Vasilij doveva esser alfine entrato in quello stesso club di fedeli della bellezza). Zecchi tira in ballo Grossman per la sua fluviale narrazione in Vita e destino, il dolente, amaro e corale romanzo che segna il passaggio dall’antifascismo pro comunista – ancora presente nel romanzo-reportage prequel Stalingrado – all’antifascismo anticomunista, dunque all’antitotalitarismo, all’equiparazione dei lager ai gulag: un grande romanzo russo tuttora troppo poco conosciuto. Ma Grossman, pur (o forse proprio perché) intriso di sgomento per la distruzione di milioni di vite cui aveva assistito e assisteva, si è anche rivolto alla bellezza e alla sua mission dostoevskiana. Vale davvero la pena di leggere, o di rileggere, il suo breve, commovente saggio sulla Madonna Sistina di Raffaello, un celebre dipinto del 1513 del genio di Urbino, regolarmente acquistato nel XVIII secolo dal sovrano di Sassonia Augusto III ed esposto (tuttora) nella Gemäldegalerie di Dresda. Proprio nella città tedesca lo aveva ammirato e venerato lungamente Fëdor Dostoevskij, che citò quell’opera in ben tre romanzi e ne teneva una riproduzione in bella vista nella sua casa. Ebbene, la Madonna Sistina nel 1945 venne deportata quale bottino di guerra in Russia, requisita dai sovietici nella ex Germania nazista, ma nel 1955 fu restituita alla Germania Est comunistizzata e, prima del rientro nella DDR, fu esposta per alcune settimane a Mosca al Museo Puškin. In quella circostanza poté sostare davanti alla Madonna di Raffaello Vasilij Grossman, che fu da lei ispirato a parole emozionanti, ricordando quando, da giornalista reporter, era entrato dieci anni prima, al seguito delle truppe sovietiche, nel terribile campo di concentramento nazista di Treblinka: “Era lei che calcava coi suoi piedi nudi e leggeri la terra fremente di Treblinka, camminando dal luogo dove svuotavano i vagoni fino alla camera a gas. L’ho riconosciuta per l’espressione del volto e degli occhi. Ho visto suo figlio, e l’ho riconosciuto per la sua strana espressione, senza niente di infantile. Era questa l’espressione delle madri e dei bambini quando sul fondo verde scuro dei pini vedevano il muro bianco della camera a gas di Treblinka, è così che erano le loro anime. Quante volte avevo visto come attraverso una nebbia questa gente scendere dai treni, ma non li vedevo con chiarezza, a volte i loro volti parevano sfigurati da un orrore senza nome e tutto veniva coperto da un terribile gridare, a volte lo sfinimento fisico e morale, la disperazione velavano i loro volti di un’indifferenza ottusa e cocciuta, a volte un sorriso folle e incosciente si cristallizza – va sui volti di quelli che scendevano dal vagone e si avviavano verso la camera a gas. Ed ecco che ora io potevo vedere la verità di quei volti, Raffaello li aveva disegnati quattro secoli prima: è in questo modo che l’uomo va incontro al suo destino. La cappella Sistina, le camere a gas di Treblinka […] E diremo: non c’è mai stato un tempo duro come il nostro, eppure non abbiamo lasciato che morisse ciò che di umano c’è nell’uomo. Guardando partire [da Mosca per Dresda, nel 1955, NdR] la Madonna Sistina, noi conserviamo la fede che la vita e la libertà sono una cosa sola, e che non c’è niente al di sopra di ciò che di umano c’è nell’uomo. Ed è questo che vivrà in eterno, e vincerà”.

Si può divergere su cosa sia “l’umano nell’uomo”, in cosa consista il nucleo essenziale dell’essere uomo, tuttavia è attraverso la sublime arte di Raffaello – d’oltre quattrocento anni precedente l’orrore della Shoah – che Grossman perviene a questa sua struggente idea di inestinguibile, eterno, umanesimo che riscalda l’animo nelle intemperie d’un tempo brutale, di una salvezza procurata dalla bellezza.

Ho scelto di citare distesamente Grossman su questo tema anche per non abbandonare il tema della bellezza esclusivamente al mondo commerciale del fashion marketing, cui pure la Madonna Sistina raffaellesca legittimamente appartiene: i due simpatici putti alla base del dipinto godono infatti oggi d’una popolarità mondiale, dovuta al loro uso da parte d’un celebre marchio italiano della moda. Tutto lecito, anzi benvenuto, a patto che la radice profonda della bellezza sia radicata nel suo essere splendore del Vero, porta di accesso alla Verità, e nel suo nome estrema, miracolosa possibilità per l’individuo di non essere totalmente preda del “sonnambulismo” che pervade e domina la storia. E questo vale per tutti i capolavori dell’arte mondiale.

Zecchi disegna poi un vasto paesaggio di fenomeni in atto nel nostro mondo, tutti coerenti con la metafora chomskiana della “rana bollita”, cioè processi in cui ci adagiamo godendone gli iniziali ed effimeri vantaggi, senza percepirne gli intrinseci e sopravvenienti pericoli: il multiculturalismo è uno di questi. Esso si muove oggi squilibratamente all’interno della polarità globalizzazione/ identità; la quale però se tralascia una ponderata, realistica considerazione delle dinamiche antropologiche, se si sgancia da una seria riflessione sul rapporto io/altro, se resta inconsapevole della dialettica nazione/mondo, sfocia inevitabilmente in una sterile, ma devastante, conflittualità tra tradizione e progresso, minando la statica di questi due pilastri ineliminabili di ogni civiltà. E se il monito mahleriano per cui tradizione non è venerazione delle ceneri bensì custodia del fuoco va sempre tenuto presente da chi si colloca nel campo conservatore, altrettanta Achtung va posta da chi milita tra i “novatori” nel rifiutare l’idolatria delle “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria.

In un altro scorcio della condizione contemporanea Zecchi si sofferma sull’inarrestabile sopravvento della scienza e della tecnica nella nostra epoca, incandescente oggetto di riflessione che abbiamo tutti sotto gli occhi e sul quale molti pesatori si sono affaticati. Nel saggio si fa in numerosi passaggi riferimento a Martin Heidegger e alla sua celebre intervista pubblicata postuma su Der Spiegel in cui affermò che la filosofia, nel senso tradizionale, soprattutto quello metafisico, era finita e che aveva ormai perso il suo ruolo di “consigliera”, diretta o indiretta, dell’umanità in cammino lungo i secoli. Mi preme solo rinviare a un ulteriore passaggio di quella storica intervista in cui il filosofo, gravato dalle gravi e inaccettabili compromissioni col regime nazista, usò l’espressione “ormai solo un dio ci può salvare” a proposito del pensiero umano e della “sperdutezza” dell’uomo nel cosmo. In tempi di biopolitica, di intelligenza artificiale e di algoritmi onnipervasivi, comprendere quale valore di bastione contro l’imbarbarimento (da violenza, da banalizzazione, da oblio), assegnare all’umanesimo, fucina della civiltà italiana e della cultura mondiale diventa momento cruciale e ineludibile.

Ulteriore, sismico processo disgregativo della nostra società, ma può ben dirsi della nostra civiltà, è per Zecchi il disfacimento della coscienza etica, dell’atteggiamento morale, cioè della risposta umana alla inaggirabile questione che continua- mente si pone e ripropone nella vita personale e collettiva su ciò che è giusto o sbagliato, su ciò che è bene o male. Si scende qui nei sotterranei della nostra costruzione sociale, culturale, nelle sue fondamenta “dogmatiche” e si constata che l’erosione e in taluni casi la dissoluzione delle basi su cui poggia l’intera impalcatura collettiva rendono una palude acquitrinosa la compagine della polis. Si perde ogni tenuta di fronte alle crescenti sfide che chiamano in gioco l’assetto valoriale riconosciuto.

E qui entra in scena la necessità della politica, non tanto nella sua dimensione amministrativa bensì orientativa: l’“estetico” Zecchi parla di una “rivoluzione conservatrice”, utile e necessaria a discernere ciò che serve oggi da quel che è stato valido ieri per affrontare il domani. Quella “conservatrice” è una rivoluzione essenzialmente ideale che trae dal passato, soprattutto culturale e artistico, suggerimenti, energie e slanci per il futuro. Più veloci si vuol correre in avanti, più è bene dare un occhio allo specchietto retrovisore. E soprattutto, come ammoniva il buon Giuseppe Prezzolini, il progresso “è una parola senza senso se non si definisce il punto verso il quale si deve o si vuole progredire”. Per questo il riferimento alla tradizione patria, cioè all’esperienza dei nostri padri, costituisce bagaglio essenziale, non per convalidare tutto, bensì per vagliare, modificare e migliorare la rotta sin qui seguita. Enea, fuggendo da Troia in cerca di un futuro, portò con sé il figlio Ascanio ma anche il padre Anchise.

Ci si chiederà: perché usare la parola “rivoluzione” per un approccio conservatore che è per sua natura chiaramente riformista? Provo a indovinare la risposta del professor Zecchi: perché al punto in cui siamo giunti c’è bisogno innanzitutto di un capovolgimento ideale, di chiarire la meta del nostro incedere nella storia (“progresso”), affinché non sia un vagare incerto, inconsapevole, magari col pilota automatico inserito, verso… il baratro. Occorre dismettere l’abito nichilista e indossare virtù collaudate, convincersi che il progresso è al servizio dell’Uomo e non l’uomo al servizio del Progresso, accettare l’idea del limite, della finitezza, ridimensionando l’insopprimibile hybris superomistica, che tante devastanti utopie ha generato (“sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono” diceva il poeta T.S. Eliot). E questo oggi è un parlare “rivoluzionario”! Osvald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes), proponendo un’idea faustiana dell’Europa, culla della civiltà, muove una critica serrata al cosmopolitismo che è Sillabario del nuovo millennio “l’opposto della vita”. Augusto Del Noce conierà la definizione di “transpolitico” per indicare una dimensione profonda che sedimenta nella coscienza dei popoli, un fiume carsico che scorre all’interno delle società. “Può il mondo uniformarsi a un solo modello politico, culturale, antropologico?”. La rivoluzione bolscevica fu figlia dello stesso materialismo oggi egemone e che sembra aver fermato la storia. La contrapposizione fra democrazia rappresentativa e democrazia organica, è il punto a cui si richiama anche la teoria delle élite dell’economista italiano Vilfredo Pareto. Democrazia senza sovranità del popolo, dove la rappresentanza diventa solo un dato formale, perché priva di un’anima culturale e religiosa. È una stimolante crociera nell’arcipelago della contemporaneità quella che Zecchi ci invita a condividere in queste pagine del suo Sillabario, disegnando una rotta originale che tocca capi estremi e suggestivi come Goethe e Dostoevskij, Kant e Spengler, per rientrare infine nel porto, perennemente minacciato eppur sempre bramato, della bellezza, luogo d’incontro privilegiato tra il fervore creativo dell’uomo in ricerca e lo sfolgorante riflesso d’una misteriosa, cosmica armonia.

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