Il circo dell’antimafia militante non si dà pace
Tiziana Maiolo — 15 Febbraio 2023
Signor Matteo Messina Denaro, per favore parli. Faccia contento il pm Di Matteo e la sua corte di intervistatori. Dica una volta per tutte se le stragi le avete fatte voi mafiosi o se ve le hanno comandate il generale Mori e Silvio Berlusconi. Parli, così magari ci togliamo dai piedi una volta per tutte la compagnia di giro dei sacerdoti della mafia delle stragi che non tollerano di sentir dire che lo Stato ha vinto.
Non si danno pace e girano vorticosamente per le tv come i criceti sulla ruota alla ricerca di torbidi retroscena, trattative e mandanti. Da un mese Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante del gruppo dei mafiosi stragisti è in carcere a L’Aquila, in regime separato e impermeabile di 41-bis e curato per il suo tumore. E’ rimasto in giro per il mondo, o forse sempre vicino a casa sua per trent’anni. Onore a coloro che lo hanno catturato e che sono pieni di orgoglio, il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido, e gli uomini del Ros dei carabinieri. Tutto il mondo dell’antimafia dovrebbe godere, perché ormai i vertici della mafia stragista sono tutti in carcere o morti senza esserne mai usciti.
Lo Stato ha vinto. E ormai, come è stato ribadito anche nell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, è luogo comune affermare che le mafie hanno cambiato fisionomia, hanno nei fatti rinunciato alle armi per trasformarsi in comitati d’affari, come sempre dedite al narcotraffico, ma ormai più vicine al mondo finanziario che non a quello delle lupare. Un punto a favore dello Stato vincitore, il fatto che non si spari più. Pure serpeggia una certa insoddisfazione, quasi un rimpianto. E’ come se a fianco di investigatori e tribunali che risolvono i casi ed emettono sentenze corresse un fiume parallelo con un plotone di magistrati in servizio o pensionati, giornalisti e pensatori vari che celebra un’altra giustizia, quella dei retroscena, dei mandanti e delle trattative.
Ogni vittoria dello Stato viene presentata come una sconfitta, perché non sappiamo ancora cosa c’è dietro. E’ un po’ come la favola delle Brigate Rosse, oggi un po’ demodé, con la tiritera che non potevano fare da sole quello che hanno fatto, come se fosse da eroi sparare a persone indifese. Reuccio incontrastato dei torbidi retroscena che aprono inquietanti interrogativi è sicuramente il dottor Nino Di Matteo. E’ sempre scontento, vive dentro una bolla di eroismo e di scorte e ritiene una grande ingiustizia il fatto di non esser diventato ministro e nemmeno capo del Dap. Per lui ogni momento politico è “particolare”. Lo diceva da Giletti due anni fa, nei giorni pericolosi della pandemia da covid, quando si tentava di sfollare un po’ le carceri per ridurre il contagio e lui rivangava il fatto che la mafia e la pavidità del ministro Bonafede gli avessero fatto saltare la direzione del Dap.
Lo ha ribadito un anno dopo da Lucia Annunziata, parlando di tentativo di regolamento di conti con la magistratura da parte del mondo politico. E lo ripete, nella centesima intervista a Corrado Formigli, un bel vis-a-vis a Piazza Pulita, nei giorni scorsi. Il momento è “delicato”. Si, è vero, è stato catturato Matteo Messina Denaro. Ma sicuramente c’è stata una trattativa. Ah, l’eterna trattativa che va avanti da trent’anni! Perché, ragiona Di Matteo, c’è questa generazione di mafiosi tra i 50 e i 60 anni che non hanno nessuna intenzione di starsene al 41-bis per tutta la vita. Sono abbastanza giovani da poter pensare al proprio futuro, quindi potrebbero aver convinto l’ultimo dei latitanti ormai gravemente malato e svendere la propria libertà in cambio di quella futura dei Graviano e soci. E quali sarebbero i segnali del cedimento dello Stato che sarebbe stato oggetto della trattativa?
I provvedimenti della Cedu e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, per esempio, anche se il decreto del governo Meloni non è andato proprio in quella direzione. E allora bisognerà vedere se la contromossa dei mafiosi in carcere sarà una reazione violenta o se si decideranno a collaborare. Siamo sempre al punto di partenza. O i boss stragisti mettono le bombe anche contro ogni logica e realtà del momento storico, o si decidono a dire che loro erano solo gli esecutori di un progetto politico e di una trattativa lunga trent’anni. Inutile che lo sconsolato procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, che dovrebbe essere incoronato come un eroe e viene trattato come un povero ingenuo se non come complice della mafia, dica con chiarezza che “c’è gente che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno le indagini”. E chissà se sono fischiate le orecchie al dottor Nino Di Matteo.
Perché la compagnia di giro dei sacerdoti della trattativa eterna tra una mafia invincibile e uno Stato sempre più molle e asservito, la sua sentenza l’ha già emessa: certe latitanze come quella lunga di Matteo Messina Denaro e quella lunghissima di Bernardo Provenzano non possono essere riconducibili solo all’omertà dei paesani dei boss e neanche all’aiuto della borghesia mafiosa. No, non basta. Dietro a queste latitanze devono esserci “per forza coperture istituzionali”. Per forza. Nel passato e nel presente. E’ una sentenza. Anche se aggiustabile all’uopo in qualunque momento.
Infatti, quando persino Formigli fa notare a Di Matteo che il governo Berlusconi era stato il più inflessibile sulle norme antimafia, tanto da render definitivo e permanente l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, Di Matteo non fa una piega e ribatte: si, però il ministro Nordio vuol modificare la legislazione sulle intercettazioni. Visto? In ogni momento, nella trattativa perenne, il cerchio può farsi quadrato. Così lo Stato non vince mai, e il circo dell’antimafia militante può continuare a girare le tv.
Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
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