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La norma, contenuta nella legge di bilancio approvata dal Governo, prevede che si possa lasciare il lavoro un anno prima se si hanno figli (meglio due che uno). Un altro tassello del puzzle Meloni a sostegno delle famiglie e della natalità.
Indice
- Riforma delle pensioni per donne con figli: il “vantaggio” di essere madre
- Chi ha avuto figli va in pensione prima?
- Riforma delle pensioni per donne con figli: Opzione donna
- Riforma delle pensioni per donne con figli: in pensione prima solo se madre
- Riforma delle pensioni per donne con figli: rischio discriminazioni
- Riforma delle pensioni per donne con figli: l’Italia senza nidi
- Riforma delle pensioni per donne con figli: l’analisi
- Fonti e materiale di approfondimento
- Ricevi tutte le news sempre aggiornate su bonus e lavoro
Riforma delle pensioni per donne con figli: il “vantaggio” di essere madre
Sostenere le donne, certo che sì. Ma solo se madri, con figli. Uno, ma meglio ancora due, ma tre è ancora meglio.
L’indirizzo del Governo Giorgia Meloni emerge chiaramente dalla legge di bilancio. Nella bufera, in particolare, le modifiche che il Governo ha introdotto per Opzione donna: il sistema pensionistico delle lavoratrici dipendenti e autonome.
La nuova versione della norma renderà l’uscita anticipata per le lavoratrici vincolato al numero dei figli: si uscirà a 58 anni con due o più figli, a 59 se si ha un solo figlio, a 60 anni senza figli.
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Chi ha avuto figli va in pensione prima?
Riforma delle pensioni per donne con figli. La norma, contenuta nella legge di bilancio prevede che si possa lasciare il lavoro un anno prima se si hanno figli (meglio due che uno). Un altro tassello del puzzle Meloni a sostegno delle famiglie e della natalità.
Riforma delle pensioni per donne con figli: Opzione donna
Riforma delle pensioni per donne con figli. In altre parole, se dal 2023 sarà possibile andare in pensione con 35 anni di contributi ma con almeno 60 anni di età, le lavoratrici con un figlio usciranno a 59, chi ne ha due uscirà a 58.
Ma sempre con il ricalcolo dell’assegno che arriva a tagliare il 30% del contributo finale. Questo, in sintesi, l’oggetto del contendere. Ma tanto basta per sollevare un polverone, e il dubbio che la norma abbia profili di incostituzionalità molto marcati.
Violerebbe, dicono i detrattori, il principio di uguaglianza: art. 3 della Costituzione. Quello secondo cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Riforma delle pensioni per donne con figli: in pensione prima solo se madre
L’INPS ricorda che Opzione Donna è «un trattamento pensionistico calcolato secondo le regole di calcolo del sistema contributivo ed erogato, a domanda, in favore delle lavoratrici dipendenti e autonome che hanno maturato i requisiti previsti dalla legge entro il 31 dicembre 2021».
Possono accedervi le lavoratrici «che abbiano maturato, entro il 31 dicembre 2021, un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni ed un’età anagrafica pari o superiore a 58 anni (per le lavoratrici dipendenti) e a 59 anni (per le lavoratrici autonome)».
La nuova versione invece porterà l’anticipo differenziato a seconda del numero di figli. In altre parole: sei stata una madre prolifica? E allora puoi andare in pensione un anno prima. Figli non ne hai voluti avere o non sono arrivati? Ti tocca lavorare.
Riforma delle pensioni per donne con figli: rischio discriminazioni
La norma va – manifestamente – nella direzione intrapresa dal Governo di Giorgia Meloni di sostegno alle famiglie e di incentivo alla natalità. E tuttavia, è abbastanza evidente, non proprio.
Quando una donna va in pensione, i figli sono infatti, in genere, già abbastanza grandi. E quindi non particolarmente bisognosi delle cure della madre. Se così è, la norma finisce per discriminare chi i figli non li ha fatti, per un’infinità di ragioni possibili (tra cui, pure, l’impossibilità di concepirli o metterli al mondo).
Riforma delle pensioni per donne con figli: l’Italia senza nidi
L’Italia è tra i paesi con il minore tasso di occupazione femminile in Europa, 46,8 per cento contro una media UE-28 di circa il 60 per cento (2014, dati Eurostat). Peggio dell’Italia fanno solo Turchia, Macedonia e Grecia.
Altrettanto elevato è il differenziale occupazionale uomini-donne: circa 18 punti percentuali contro gli 11 punti percentuali della media europea. Varie ragioni sono alla base della difficoltà delle donne di conciliare famiglia e lavoro.
Tra queste, il modello culturale ancora prevalente, che vede l’uomo provvedere al sostentamento della famiglia, e la scarsità di politiche di conciliazione famiglia-lavoro. In particolare, l’Italia spende ancora troppo poco per i servizi pubblici di assistenza all’infanzia (vedi figura).
Secondo il rapporto “C’è un nido?” del 2015 curato da Cittadinanza Attiva, solo l’11,9 per cento dei bimbi italiani sotto i due anni di età ha usufruito del servizio di asilo nido comunale o comunque con integrazione comunale, nell’anno scolastico 2012-13.
Non è allora sorprendente che in questo contesto generale, in Italia (ma non solo) i nonni possano rappresentare un’importante risorsa per le mamme, come fonte di cura dei figli flessibile, affidabile e a basso costo.
A partire dagli anni Novanta, tuttavia, una serie di interventi legislativi ha innalzato l’età pensionabile e, in generale, ha reso più stringenti i requisiti per la pensione, con l’obiettivo di rendere il sistema pensionistico capace di far fronte al progressivo invecchiamento demografico. Un effetto collaterale delle riforme è stato quello di sottrarre alle famiglie una preziosa fonte di supporto nella cura dei figli: i nonni.
Riforma delle pensioni per donne con figli: l’analisi
Riforma delle pensioni per donne con figli. Abbiamo utilizzato le riforme pensionistiche per quantificare l’effetto che la disponibilità (o indisponibilità) di nonni ha sull’occupazione delle madri di figli sotto i 15 anni. Ci siamo focalizzati in particolare sul periodo precrisi (1993-2006), utilizzando i microdati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, curata dalla Banca d’Italia.
Secondo la nostra analisi, le madri che hanno maturato i requisiti pensionistici hanno una probabilità di essere occupate di ben 7,8 punti percentuali superiore rispetto a quelle con madri che non hanno (ancora) diritto al pensionamento.
La differenza corrisponde a un aumento del 13 per cento della probabilità di lavorare nella media del campione. Un simile effetto non si trova invece né per la nonna paterna, né per i nonni (maschi).
Il nostro modello, nello spiegare l’occupazione delle donne con figli, tiene esplicitamente conto delle determinanti dei requisiti di pensionabilità dei nonni (genere, età, livello di istruzione, lavoro nel pubblico o nel privato, attività indipendente o alle dipendenze) che potrebbero sia influenzare il livello del reddito da lavoro e le loro pensioni sia avere un effetto diretto sull’occupazione delle donne, sfruttando così unicamente le variazioni nei requisiti di pensionamento indotte dalle riforme.
Per questa ragione non abbiamo particolari motivi per attenderci che il possesso dei requisiti di pensionamento delle nonne materne stia cogliendo altri effetti positivi delle riforme pensionistiche sull’occupazione delle donne con figli, non necessariamente legati alla maggior disponibilità di servizi informali di cura dei figli.
Abbiamo comunque stimato gli stessi modelli di regressione anche sugli uomini con figli minori di 15 anni, sulle donne senza figli giovani conviventi e su quelle con figli in età pre-scolare. Nei primi due casi non abbiamo riscontrato alcun effetto sulla probabilità di occupazione dei nostri due campioni del possesso da parte dei loro genitori o suoceri dei requisiti per il pensionamento, mentre nell’ultimo caso l’effetto positivo stimato sull’occupazione è del 34 per cento.
Questo rafforza la nostra interpretazione che l’effetto stimato sia prevalentemente spiegabile con la maggiore disponibilità di servizi di cura dei figli garantita da nonni in pensione.
Il nostro studio suggerisce che le riforme pensionistiche potrebbero avere effetti negativi non voluti sull’occupazione delle madri con figli giovani, senza adeguate politiche pubbliche che possano riempire il vuoto nell’offerta di servizi all’infanzia creato dalla ridotta disponibilità (soprattutto) di nonne che lavorano fino a tarda età.
L’ammontare mensile del cosiddetto “bonus bebè”, 80 euro, ossia grossomodo il costo di una giornata di cura dei bambini, appare perciò del tutto insufficiente a ovviare al problema. L’assenza di correttivi potrebbe contribuire a inasprire ulteriormente il già elevato divario occupazionale tra uomini e donne e anche crearne uno tra donne in età fertile e donne mature.
Fonti e materiale di approfondimento
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