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Il segretario Pd scelto dai non iscritti è una follia – Il Riformista

Si sono conclusi a favore di Stefano Bonaccini i congressi territoriali del Pd, ma paradossalmente i giochi restano aperti. Sarà anche vero, come ammoniva Rousseau, che “la pazzia non crea diritto”. E però, per quanto riguarda il Partito democratico, la follia ha concepito una normativa giuridica eccentrica sfornando uno statuto che col passare del tempo si rivela sempre più un capolavoro dell’assurdo. Così ora, dopo l’ampio successo riportato dal governatore emiliano tra gli iscritti, è concreta, vista l’ampiezza delle forze dispiegate nell’appello al popolo, l’eventualità di un rovesciamento dei rapporti di forza che consegni la leadership alla sua sfidante.

La Stampa ha cercato, in qualche misura, di invogliare a un simile ribaltone pubblicando nei giorni scorsi strani sondaggi che certificavano il successo facile di Elly Schlein nei gazebo. Se Carlo Calenda, dinanzi al magro bottino elettorale del Terzo polo, ha evocato la sostituzione del popolo errante, la stampa tifosa dell’eutanasia del Pd, al cospetto dello sgradito esito delle preferenze misurate nei circoli, ordina di sciogliere d’imperio i militanti, così ostinati nel respingere una scalata per l’acquisizione dello scettro del Nazareno. La ragione politica vorrebbe che solo agli iscritti fosse riservato il diritto-potere di scegliere il segretario della propria organizzazione. Sono loro che pagano la tessera, spendono tempo e passione per la riproduzione della quotidiana vita associativa.

Ipotizzare che un corpo elettorale estraneo (si calcola peraltro che circa il 25% dei partecipanti alla fiera dei gazebo neppure scelga il Pd alle elezioni) decida chi debba essere il capo di una “parte”, in contrasto con la volontà già manifestata e chiaramente scolpita nel voto di militanti e iscritti, è non solo una bizzarria, ma un oltraggio alla centralità costituzionale conferita ai partiti politici. Non esiste, in una democrazia liberale, un popolo omogeneo in nome del quale ognuno possa indifferentemente partecipare alla nomina dei vertici di una qualsiasi forza politica. È evidente che le attribuzioni che la Carta riconosce al partito si riferiscono ad esso come parte-formazione entro cui si riconoscono specifiche sensibilità, valori, interessi, culture. Questi richiami cogenti al limite-confine che distingue le molteplici organizzazioni escludono che il popolo in quanto totalità possa dettare la volontà e la leadership al partito quale segmento speciale della società.

Se tocca al popolo nella sua interezza decidere la titolarità della guida di una parte, cadono le stesse ragioni che giustificano il multipartitismo. Con le primarie Veltroni sognava l’America, ma si è ritrovato ad essere l’architetto dei riti totalizzanti di una grigia democrazia popolare. Non esiste alcun modello democratico pluralista se non è garantito lo specifico e irriducibile punto di vista di un frammento di società che si organizza attorno a credenze e idealità esclusive. Convocare il popolo nella sua globalità per lasciar decidere ai passanti che donano due euro le sorti di una comunità parziale significa minare le basi costituzionali che sorreggono il valore della differenza come radice di una plurale democrazia dei partiti.

La “pazzia” dello statuto del Pd attribuisce a un corpo elettorale imprecisato, che si forma in maniera imponderabile e aleatoria con la semplice coda in una fila occasionale (non basta un “albo nazionale degli elettori” a conferire certezza alla composizione degli aventi diritto al voto), il potere di surclassare la volontà liberamente maturata nelle assemblee di una comunità organizzata di iscritti e militanti. Gianni Cuperlo, che più batteva sul tasto della ricostruzione del partito di iscritti, è stato sconfitto, ma la sua insistenza rimane intatta come obiettivo prioritario da perseguire sotto il profilo della cultura politica. Secondo Paolo Farneti (Elementi per un’analisi della crisi del partito di massa, “Democrazia e diritto”, 1979, nn. 5-6), “il numero degli iscritti può essere considerato un indicatore della vitalità del partito perfino migliore del numero dei voti”. Al malandato Nazareno, dove pure hanno smobilitato la forma del partito di massa, risiede nondimeno in Italia l’unico esemplare di organizzazione politica con iscritti e circoli.

Quella di Giorgia Meloni non è nient’altro che una variante di partito leaderistico-personale, al pari di quella di Salvini. Il tasso significativo di iscrizioni, che il declinante Pd malgrado tutto conserva, è un indice di una riserva di cultura civica. Non a caso, nei territori dove restano ben visibili i residui di partito la militanza offre ai soggetti più organizzati una straordinaria capacità di resistenza nelle crisi democratiche. Su un piano più generale, M. Duverger (I partiti politici, Laterza, 1971, p. 106) spiegava che è proprio dagli iscritti (che sono “la materia stessa del partito”), educati dalle strutture di base, che l’organizzazione ricava non soltanto fonti finanziarie (invero sempre meno), ma la formazione della nuova élite politica che sorge dalle sue pratiche di socializzazione collettiva.

Con il declino del ruolo degli iscritti, e con la contrazione degli attivisti (sintomo di un deficit della logica associativo-partecipativa), cui corrisponde un ruolo accresciuto della leadership mediatizzata, si deprime anche l’assetto organizzativo e frana l’autonomia dei partiti dai media e dai gruppi di interesse più influenti. L’aporia dei sostenitori della Schlein, che enfatizzano come un toccasana la necessità di far saltare il tavolo dei risultati congressuali, è davvero eclatante. Sostengono che solo la scossa rappresentata dal trionfo della candidata outsider può salvare il Pd dal mesto declino (“O si cambia o si muore”). In realtà, con il loro appello al popolo per imporre il ribaltamento della libera volontà degli iscritti si determina l’uccisione certa della forma-partito. Nascerebbe, con “il sorpasso” invocato dal Manifesto, un’altra cosa rispetto all’indirizzo politico-programmatico e alla leadership già con trasparenza maturata nei confronti che si sono tenuti nei congressi di sezione, coinvolgendo 150mila votanti.

Il fatto che storicamente mai sia capitato che le cosiddette primarie abbiano ribaltato i rapporti di forza fotografati nel voto dei circoli non risolve di sicuro il problema. Non è una questione di semplici precedenti (sempre il divario registrato nei congressi si è persino ampliato nei gazebo), ma di principio. Dinanzi al revanscismo della minoranza che, grazie ad apporti estrinseci e al sostegno mediatico più marcato (La Stampa, Repubblica, Il Fatto quotidiano, Il Manifesto, Domani, La7, ecc.), sogna di recidere la volontà degli iscritti, si percepisce un senso di decadimento intellettuale e morale delle classi dirigenti.

Davvero si può aspirare alla segreteria di un partito cancellando la sovrana parola delle tessere? Il solo concepire un’eventualità del genere, con la reiterazione di appelli per ribaltare i risultati acquisiti nei circoli, indica come il nuovismo, dopo i danni infiniti che già ha procurato nella storia repubblicana dell’ultimo trentennio, si appresti oggi, sotto mascheramenti iper-democratici, a regalare un ulteriore colpo, forse definitivo, alla gracile democrazia dei partiti.

Che una figura esterna, grazie a una modifica statutaria, prima ottenga la possibilità di partecipare ad un “congresso costituente” aperto, poi in zona Cesarini si iscriva direttamente a candidata alla segreteria, e infine, dinanzi alla netta sconfitta subita nelle sezioni, intenda rifarsi con il sostegno dei passanti, dice tanto sulla cieca volontà di dissolvimento che si è impossessata della sinistra. Gli iscritti non sono all’improvviso diventati dei seguaci psichicamente turbati di un club di suicidi, che deve essere salvati dalla certa dannazione attraverso il generoso soccorso dei viandanti illuminati.

Sostenere che o si cambia il responso dei congressi territoriali oppure si muore significa soltanto agganciarsi a risorse di influenza incontrollate per espropriare gli iscritti del loro inalienabile potere di indirizzo, investitura, controllo. Tutto ciò rivela quanto in profondità, e nei luoghi meno pensabili, abbia scavato la malattia mortale del nuovismo (non solo) veltroniano-prodiano che, nella guerra tra un papa e un antipapa, nel 2008 causò la rovina di entrambi i contendenti. Al di là del giudizio sulla qualità della leadership di Bonaccini, dei tratti anche discutibili della sua cultura politica, la voce degli iscritti dopo liberi congressi va solo rispettata (insomma: vox militantium vox Dei).

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