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Frenano i grilli: detta così fa ridere, ma è la verità della cronaca. D’ora in poi, se uno vorrà proprio proprio obbedire ai diktat pseudo salutisti e pseudo ambientalisti degli euroburocrati di Bruxelles e quindi vorrà cibarsi di grilli e insetti vari, potrà farlo scientemente avendo a disposizione nei supermercati una scaffalatura dedicata: dal Governo arrivano 4 decreti contro la farina di insetti, per cui i cibi che la contengono saranno disposti su apposite mensole e dovranno recare bello grande e scritto in evidenza che trattasi di questo, insetti appunto, larve, grilli, cavallette, di tutto di più. Dovranno indicare anche gli eventuali pericoli per la salute: e chi ne vuole, li prenda pure. Sapendo che ci sarà un divieto assoluto di farine di insetti per la pizza e per la pasta (Redazione).
Dai Borbone ad Eduardo storia del piatto identitario
A Napoli anche il ragù è legato ad una leggenda. Subito dopo la crisi del ‘300 fu costituita la Compagnia dei Bianchi di giustizia; penitenti che percorrevano la città a piedi invocando “misericordia e pace”. La compagnia convinse la popolazione a riappacificarsi con i propri nemici e si recò da un nobile malvagio, malvisto da tutti, che risiedeva nel “Palazzo dell’Imperatore” in Via dei Tribunali, il quale decise di non accettare l’invito dei bianchi. Non cedette neanche quando il figlio di tre mesi sfilò le manine dalle fasce ed incrociandole gridò tre volte: “Misericordia e pace”.
Un giorno sua moglie gli preparò un piatto di maccheroni. Avvenne un fatto prodigioso: la provvidenza riempì il piatto di sangue. Commosso dal prodigio, si rappacificò con i suoi nemici e vestì il bianco saio della Compagnia. Il giorno seguente la moglie preparó i maccheroni che divennero rossi. Il signore decise così di chiamare questo piatto come sui figlio, “Raù”.
Ma la storia del ragù napoletano è molto diversa dalla leggenda.
Il daube de boeuf, uno stufato di carne di bue mescolato a verdure, era un piatto francese medievale, antenato del “ragout” che però prevedeva carne di montone.
Nel XVIII questa pietanza, dalla Francia, insieme alla moda, usi e costumi, fa il suo ingresso a Napoli. Sono gli anni del regno di Ferdinando IV di Borbone e fu Carolina d’Asburgo Lorena, sua moglie e sorella di Maria Antonietta di Francia, a introdurlo nelle cucine napoletane.
Carolina fa scoprire ai napoletani un piatto prelibato e sostanzioso a base di carne di manzo o vitello e cucinato in bianco. Una versione decisivamente più leggera rispetto alla ricetta che conosciamo oggi. Solo nell’opera di Carlo Dal Bono Usi e Costumi di Napoli del 1857 si parla dell’uso del pomodoro nel ragù, descrivendo la distribuzione dei maccheroni da parte dei tavernai: “Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro del ragù copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”. Il ragù napoletano diventa una filosofia culinaria: deve cuocere quasi due giorni, il colore del sugo deve diventare rosso intenso, quasi scuro, e mentre cuoce deve “pippiare” (ribollire, fare le bolle).
Eduardo De Filippo gli ha dedicato la poesia O rraù nel 1947; il film Sabato, Domenica e Lunedì del 1959 ha proprio la preparazione del ragù come filo conduttore; nel film Incantesimo Napoletano di Miniero e Genovese del 2002, è protagonista delle scene degli zii, intenti a girarlo con la “cucchiarella” di legno “sennò s’attacca”, mentre commentano ciò che succede come vecchie comari.