I giovani alla terra non tornano affatto. Magari ci provano, ma spesso non riescono a realizzare i loro obiettivi. Anche l’agricoltura 2.0 rimane così accessibile a pochi. Tutti gli altri combattono con ostacoli burocratici, fondi insufficienti, politiche e strumenti troppo ingessati e orientati a uno sviluppo insostenibile. E, quindi, difficoltà nell’accesso ai terreni, ma anche alle informazioni necessarie per chi è alle prime armi. Al 2020 appena il 9,3% dei leader di aziende agricole non supera i 40 anni. Era l’11,5% nel 2010 (dati Istat). E questo perfino di fronte a un crollo verticale delle aziende agricole che prosegue da decenni. La Francia oggi, che conta appena il 30% delle aziende agricole italiane, piazza il triplo dei giovani nel settore ogni anno. Per chi non possiede già un’azienda di famiglia o un discreto capitale, è quasi impossibile darsi alla vita rurale con un progetto economico e produttivo. Lo racconta il report curato per l’associazione ‘Terra!’ dal ricercatore Francesco Panié e intitolato Gioventù frustrata. Se l’agricoltura italiana perde il treno del ricambio generazionale. Presentato nel corso di un seminario, insieme a un’analisi condotta da due ricercatori del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), Barbara Zanetti e Francesco Licciardo, sulla maggiore capacità di innovazione di imprese giovani, che puntano più su sostenibilità e multifunzionalità. Il grande spreco, infatti, è proprio questo. “Dobbiamo porci il problema del mancato ricambio generazionale in agricoltura – spiega il direttore dell’associazione ‘Terra!’ Fabio Ciconte a ilfattoquotidiano.it – perché abbiamo bisogno di trasformare i sistemi alimentari e affrontare la questione del cambiamento climatico e con i giovani c’è più agricoltura biologica, più differenziazione aziendale, oltre che più presenza femminile”.
Il ricambio che non c’è – I capi delle aziende agricole che hanno meno di 40 anni oggi sono circa 105mila (in 1,1 milioni di aziende), contro i 186mila del 2010, quando le aziende erano 1,6 milioni. In proporzione, quindi, oggi sono di meno. La flessione si avverte soprattutto al Sud e nelle Isole, dove in dieci anni c’è stato quasi un dimezzamento delle aziende giovani. In quelle italiane il 57,5% dei capi ha più di 60 anni. Anche quello della formazione è un tema poco affrontato dalle istituzioni. Se il nuovo censimento Istat racconta di una gioventù agricola composta per il 70% da diplomati e laureati, è anche vero che su circa 105mila aziende gestite dagli under 40, solo 20mila hanno a capo una persona con diploma superiore o laurea in agraria. “E questo avviene soprattutto perché in Italia, la terra perlopiù la si eredita” spiega il report di ‘Terra!’. “Crediamo che anche quello della formazione sia un problema – spiega Ciconte – ed è su questo che stiamo lavorando con la Scuola della Terra-Emilio Sereni, un percorso di formazione rivolta a 25 allievi, che dà l’opportunità di fare esperienze pratiche in aziende, a Roma. Cerchiamo di mettere in connessione i ragazzi con aziende che seguono pratiche agro-ecologiche”.
Gli ostacoli al turnover – Il problema, però, non è più solo nell’attrattiva, “in una società il cui immaginario è plasmato dal racconto di futuri dominati dalla tecnologia” e dove “l’automazione rende la quotidianità semplice e libera dalla fatica” o nella precarizzazione del lavoro che riduce la possibilità di investire in attività imprenditoriali. Perché alla mancanza di liquidità, probabile causa della crescita del regime dell’affitto rispetto alla proprietà, si aggiungono gli stessi costi dei terreni, ai primi posti in Europa sia per la vendita che per l’affitto, mentre al contrario redditi e salari si contraggono. Oggi le aziende completamente affittate sono il 10%, contro il 4,7% del 2010. Secondo i dati Istat per quanto riguarda le aziende giovani, la metà (57mila) sono affittate ed hanno una superficie complessiva doppia rispetto a quelle di proprietà (1,1 milioni di ettari contro 525 mila). A questi fattori, si aggiunge l’inadeguatezza degli strumenti normativi che dovrebbero sostenere il ricambio generazionale e dei fondi connessi.
Il sostegno finanziario – Per ottenere un sostegno pubblico all’avvio di un’attività agricola, i giovani attingono principalmente alle risorse della Politica agricola comune (Pac), mentre un ruolo più marginale lo giocano strumenti messi in campo dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea). In entrambi i casi, le risorse sono scarse. La Pac destina appena il 3% dei pagamenti diretti al ricambio generazionale, che in genere vengono destinati a chi ha già un terreno (viene richiesta una produzione standard, fatta eccezione per le province autonome di Trento e Bolzano, ndr). “Basti pensare alla Agricola Mpidusa, la prima cooperativa sociale agricola di comunità di Lampedusa fatta nascere nel 2020 proprio da ‘Terra!’ – racconta Ciconte – e che non riesce ad accedere ai finanziamenti perché troppo piccola”. Non solo: occorre qualificarsi come imprenditore agricolo professionale, fatto che impone l’esercizio della professione a tempo pieno. Troppe restrizioni, insomma, che disincentivano la partecipazione dei giovani, specie di coloro che non posseggono già terra e mezzi di produzione. Secondo l’associazione, invece, “dovrebbe essere favorito l’accesso di chi svolge, almeno per i primi anni, un’attività agricola part-time, così da allargare la platea dei potenziali beneficiari anche a chi non ha o non ha avuto l’opportunità di ereditare”. E poi c’è l’industrializzazione che getta fuori mercato, giorno dopo giorno, una produzione familiare e di piccola scala. Nel dossier si propone l’idea di una sperimentazione, che preveda un tetto a 30 ettari di superficie agricola utilizzata. “Cosa che permetterebbe – stima ‘Terra!’ – a risorse invariate, di almeno triplicare l’importo per ettaro attualmente fissato per questa misura (che paga i primi 90 ettari di tutte le aziende giovani)”.
Un percorso pieno di insidie – Meccanismi che ormai conosce bene Maria Stella Carbone, della società agricola Semi di Tuscia. Poco prima della pandemia, insieme al marito si è trasferita da Roma a Marta (Viterbo), per cambiare vita dopo 20 anni di lavoro, per entrambi, in altri settori. Di lì a poco Maria avrebbe compiuto 40 anni e, quindi, il bando a cui ha partecipato rappresentava l’ultima occasione di poter beneficiare dei fondi per i giovani. Ha dovuto fare subito i conti con i limiti del Psr, il documento di programmazione redatto dalle Regioni per attuare gli obiettivi dello Sviluppo Rurale, uno dei pilastri della Pac. Per il primo insediamento veniva richiesto un terreno in affitto con contratto di almeno sette anni. “Pensavamo fosse più facile l’accesso alla terra – racconta – ma grazie alla monocultura del nocciolo in quell’area si arriva anche a 30-35mila euro a ettaro, una cifra folle. Una piccola impresa non sarà sostenibile, ma ad alterare i prezzi è l’accentramento della superficie agricola utile da parte di pochi, che magari neppure vivono in quei territori, ma li sfruttano solamente. Un ettaro di nocciolo produce ben più di 30mila euro”. Diventa così un problema acquistare e prendere in affitto. Maria e il marito hanno utilizzato i loro risparmi per acquistare 3,5 ettari e sono riusciti a trovare, non senza difficoltà, due persone che avevano un’azienda agricola che ha chiuso dopo 15 anni: “Abbiamo affittato anche questi 2,5 ettari a prezzi umani per dieci anni. E poi, dopo i problemi di accesso alla terra, sono iniziati quelli di accesso alle informazioni, anche burocratiche, che sono parcellizzate. In un settore carente di figure professionali”.
Il nodo delle Terre pubbliche – Oltre che sulle misure ritenute “insufficienti” della Pac, nel dossier invita a ottimizzare gli strumenti messi a disposizione dell’Ismea, per esempio organizzando “bandi per l’affitto delle terre pubbliche, invece che alienare con la vendita il patrimonio fondiario della collettività”. Si tratta di un potenziale inespresso. Per l’associazione “potrebbero essere offerte in affitto a canone agevolato ai giovani agricoltori con progetti di agroecologia convincenti”. Ma in Italia non esiste un censimento di questi terreni e del loro stato, ciascun ente locale va per la propria strada. Il Comune di Roma, per esempio, ha da poco definito le linee guida per un bando di assegnazione delle terre pubbliche, come spiegato dall’assessora all’Agricoltura, Sabrina Alfonsi. Per ‘Terra!’ è “indispensabile che il ministero delle Politiche Agricole si coordini con regioni e comuni, disponendo un censimento delle terre pubbliche abbandonate a uso agricolo”.
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