Dovevano squassare le urne delle Politiche 2022 con quella che era stata presentata come un’autentica macchina da guerra elettorale, che avrebbe mosso le legioni di indecisi e risvegliato le coscienze dei diciottenni. Come erano loquaci in campagna elettorale, quando lanciavano appelli militarizzanti ai milioni di follower incitandoli a votare contro il Medioevo™: come s’è poi visto, l’apparato degli influencer e relativa agenda a base di diritti e inclusione si è sgonfiato come un soufflé mal cucinato. Il 26 settembre, quelli furbi hanno silenziosamente «fatto pippa» dagli Instagram e dai TikTok listati a lutto, gli altri twittavano inneggiando alla resistenza dal front row di Moschino.
La sconfitta dei Ferragnez
Il magro risultato è riprova evidente del fatto che «follower» non equivale a «elettore». Secondariamente, le istanze confusionarie dei principali influencer sembrano voler rappresentare più una tecnica di polarizzazione e di fidelizzazione, di branding, come si dice oggi, delle masse di utenti, piuttosto che una battaglia politica dettata da genuine convinzioni: caso strano, il prodotto dei «diritti» è sempre presentato in abbinamento a creme, smalti, capi di abbigliamento e musica. Ravvisate qualche differenza tra Wanna Marchi che vende creme scioglipancia, numeri del lotto e sogni di affermazione sociale, e Fedez che pubblicizza su TikTok lo smalto per unghie non binario, presentandolo come vessillo di inclusività e tassello irrinunciabile per la costruzione della società futura?
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di gennaio 2023
D’altronde influencer e artisti sono dei bei paraculi: hanno dimostrato di volersi schierare contro la destra incarnata dalla Meloni, ma al tempo stesso non hanno mai fatto un endorsement esplicito per il voto a favore di un simbolo politico specifico. Una mossa furbetta dettata da logiche di marketing: assecondo un trend, come quello dei diritti, che culturalmente invade il dibattito pubblico, lo cavalco e lo utilizzo per raggiungere il maggior numero possibile di utenti, li fidelizzo mostrandomi socialmente consapevole, ma mi guardo bene dall’arrivare alle estreme – anche se coerenti – conseguenze, che comportano lo schierarsi espressamente per una certa parte politica.
Che poi il follower non sia sempre equivalente a un elettore, deriva dal fatto che questi influencer molto spesso sono degli apologeti del disimpegno a ogni costo: il loro porsi a favore di certe istanze, ma al tempo stesso non prendere posizione per una forma partitica, per motivi di convenienza commerciale, disinnesca l’eventuale forza elettorale di un dato messaggio. Anche se ospitano Zan nei loro podcast, anche se attaccano la Meloni, non dicono mai espressamente di votare il Pd, perché altrimenti mutilerebbero il loro appeal commerciale su tutta quella parte di giovani che, pur confusi e oscillanti, non vogliono avere a che fare con un partito.
TikTok: imparare dal nemico
Gli influencer sono dunque dei populisti e dei demagoghi con le unghie ben piantate sul profitto, sì. A questo punto, però, si impone una riflessione, costruttiva e strategica. Il sistema su cui i «venditori di pentole» del Terzo millennio basano la loro sopravvivenza, lo stesso modello in grado di veicolare idee fallaci e grottesche non è del tutto sbagliato: rettificandolo debitamente, e individuando vettori adeguati, potrebbe anzi contribuire a immettere nel dibattito pubblico idee non conformi. Non si tratterebbe, dunque, di spostare voti, ma di sedimentare concetti e modelli alternativi a quelli proposti dalla narrazione liberal-progressista. Dai progressisti – solo in questo caso – abbiamo da imparare. L’idea non dovrebbe tanto essere – o non solo, per lo meno – quella di costruire dal nulla degli influencer non conformi, ma adattare degli stili, dei ritmi e delle forme di comunicazione esistenti alla nostra narrazione. Una prassi contro-influencer che non…
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